CASSIBILE – 6097 è una donna eritrea di 26 anni. Condivide la stanza con 6158 e 6207, anche loro eritree. I loro nomi li hanno persi una volta entrati nel centro di accoglienza di Cassibile. Li ritroveranno una volta depositata la domanda d’asilo, nel giro di un mese. Per ora, accanto alla loro foto c’è soltanto un numero a quattro cifre. Ogni immigrato è registrato con un numero. Il numero viene scritto a pennarello su una lavagnetta, con la data dello sbarco, e poi viene scattata la foto. Quel numero servirà a identificarlo per tutta la durata del trattenimento a Cassibile. Letekidan mi mostra il suo cartellino di riconoscimento. C'è la foto e il numero. Nessun nome. “Lo facciamo perché ci fornirebbero comunque false generalità” si giustifica il vice direttore Andrea Parisi. Una volta numerati gli immigrati possono essere gestiti più facilmente che con i loro nomi impronunciabili. Ma i numeri, distribuiti in ordine crescente, restituiscono anche l'ordine di arrivo.
6097 aspetta da un mese il suo attestato identificativo, ovvero la ricevuta dell'avvenuta formalizzazione della domanda d'asilo che le permetterà di uscire liberamente dal centro. Eppure 6158 ha già l'attestato e così pure 6207. Glielo hanno rilasciato dopo soli quattro giorni dalla richiesta d'asilo. Sono convocate per l'intervista alla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato il 4 dicembre. Aspetta dietro le sbarre. Le sbarre alla finestra. Le sbarre delle due recinzioni che circondano il centro. Dorme con altre dieci donne eritree in un'unica stanza. Sulla porta della camera c'è ancora scritto “Assistenza legale”. Hanno tutte attraversato la Libia dopo aver disertato l'esercito eritreo. Nebiat ci ha messo due anni e mezzo per arrivare in Italia. Due mesi li ha trascorsi a Kufrah, nel centro di detenzione finanziato dall'Italia. Erano 50 donne in una stanza di una trentina di metri quadrati. Per evadere ha dovuto pagare 500 dollari a un dallala che ha corrotto la polizia. Asdir invece ha passato un mese nel deserto del Sahara, nelle mani dei ribelli, nel Darfur. Anche Yohanna ha attraversato la Libia. E in Libia è ancora bloccato il marito. Spera di ottenere l'asilo politico e di poter fare il ricongiungimento familiare. Hanno un figlio, è rimasto a Asmara. E anche senza documenti, con il test del dna, potrebbero avere il visto dall'ambasciata italiana a Tripoli ed evitare di rischiare la vita in mare. Ma quanto tempo dovrà ancora passare? Sembra chiederselo anche Yohanna, mentre con la punta delle dita si asciuga le lacrime che le stanno cadendo sulle guance.
6097 aspetta da un mese il suo attestato identificativo, ovvero la ricevuta dell'avvenuta formalizzazione della domanda d'asilo che le permetterà di uscire liberamente dal centro. Eppure 6158 ha già l'attestato e così pure 6207. Glielo hanno rilasciato dopo soli quattro giorni dalla richiesta d'asilo. Sono convocate per l'intervista alla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato il 4 dicembre. Aspetta dietro le sbarre. Le sbarre alla finestra. Le sbarre delle due recinzioni che circondano il centro. Dorme con altre dieci donne eritree in un'unica stanza. Sulla porta della camera c'è ancora scritto “Assistenza legale”. Hanno tutte attraversato la Libia dopo aver disertato l'esercito eritreo. Nebiat ci ha messo due anni e mezzo per arrivare in Italia. Due mesi li ha trascorsi a Kufrah, nel centro di detenzione finanziato dall'Italia. Erano 50 donne in una stanza di una trentina di metri quadrati. Per evadere ha dovuto pagare 500 dollari a un dallala che ha corrotto la polizia. Asdir invece ha passato un mese nel deserto del Sahara, nelle mani dei ribelli, nel Darfur. Anche Yohanna ha attraversato la Libia. E in Libia è ancora bloccato il marito. Spera di ottenere l'asilo politico e di poter fare il ricongiungimento familiare. Hanno un figlio, è rimasto a Asmara. E anche senza documenti, con il test del dna, potrebbero avere il visto dall'ambasciata italiana a Tripoli ed evitare di rischiare la vita in mare. Ma quanto tempo dovrà ancora passare? Sembra chiederselo anche Yohanna, mentre con la punta delle dita si asciuga le lacrime che le stanno cadendo sulle guance.
(Gabriele Del Grande, pubblicato da Redattore Sociale il 2 ottobre 2008)
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