BARI - Da un lato la Grecia, dall"altro la Puglia. Nel mezzo l’Adriatico e la diaspora afgana. Una diaspora che non fa parlare di sé, perché non fa il clamore di uno sbarco a Lampedusa. Ma a Bari, come negli altri porti italiani dell’Adriatico, arrivano a decine ogni giorno, da anni. Nascosti dentro i camion che a centinaia, ogni notte, si imbarcano sui traghetti di linea che collegano Patrasso e Igoumenitsa all’Italia. Lasciano la Grecia perché in quel Paese nemmeno agli afgani – che nel mondo contano 3,1 milioni di rifugiati, soprattutto in Pakistan e Iran – viene garantito l’asilo politico. Il tasso di riconoscimento è fermo allo 0,3%. E così scelgono l’Italia, spesso solo come via di transito verso il nord Europa: l'Inghilterra o i Paesi scandinavi.
Quando il camion esce dal porto, iniziano a battere pugni sul cassone. E gli autisti – spesso ignari del carico umano – aprono i portelloni senza fare troppe storie. Tuttavia riuscire ad uscire dal porto, e addirittura dalla nave, è sempre più difficile. Nella sola giornata del 30 luglio 2008, ben 51 afgani sono stati scoperti nel porto di Bari e rinviati in Grecia. L’Ufficio delle dogane di Bari ha addirittura installato un’apparecchiatura scanner capace di analizzare ai raggi x i camion in uscita dalle navi. Nei primi sei mesi del 2008 almeno 62 rifugiati sono stati scoperti in questo modo. E altri 100 sono stati rinviati in Grecia dal porto di Ancona, sempre grazie all'apparecchiatura scanner Silhouette.
E. l’hanno respinto tre volte. Sempre dal porto di Brindisi. Nel novembre del 2005. Lo incontro a Piazza Umberto, nel centro di Bari, insieme a un gruppo di giovani afgani, ospiti di una comunità per minori. Anche lui è afgano, parla hazara. Preferisce parlare sotto anonimato. "Avevo 18 anni – dice -. Eravamo in cinque, appesi sotto i camion. Tutti afgani. Ci scoprirono all’uscita dalla nave. E ci rinchiusero a chiave in una stanza senza finestre”. Tre di loro – dice E., erano minorenni. Le navi ripartono in giornata per la Grecia, e una volta di ritorno a Patrasso, di solito, si viene rilasciati dopo 24 in custodia della polizia del porto. Ma il viaggio inizia molto prima dell’Adriatico. Sulla via dell’esilio bisogna prima superare i passi innevati sulle montagne di Van, in Turchia, e le onde del mar Egeo.
Quando C. ha attraversato la frontiera tra Iran e Turchia aveva solo 17 anni. Era durante l’inverno tra il 2006 e il 2007. Non riesce a ricordare le date. Invece ricorda bene quella marcia disperata. Erano in 60. Afgani, come lui, e poi pakistani e bangladeshi. Avevano pagato 1.000 dollari a degli afgani a Teheran, affinché li mettessero in contatto con le guide iraniane che li stavano scortando. Alcune donne viaggiavano a cavallo. Gli altri a piedi. “Di notte si marciava – racconta -. Avevamo sempre le scarpe nella neve. I piedi si bagnavano. Faceva freddo”. Di giorno invece si fermavano intorno ai fuochi per far asciugare i vestiti e riscaldarsi. “Da mangiare ci davano soltanto del pane. Per bere facevamo sciogliere la neve tra le mani”. Nel suo gruppo C. non ha visto nessuno morire. Ma appena arrivati nella città turca di Van, dopo una settimana di cammino, nella casa dove erano tenuti nascosti dai kaçakçi (come si chiamano i contrabbandieri in turco), alcuni uomini piangevano per la scomparsa di due persone, assiderate lungo il cammino, pochi giorni prima.
Van si trova all’estremo oriente della Turchia. Per arrivare a Istanbul servono circa 24 ore di viaggio. 24 ore chiusi dentro il cassone di un camion. Si spostano così i rifugiati afgani per attraversare la Turchia alla volta dell’Europa. Di quel viaggio M. ricorda soprattutto il buio. “Non si vedevano nemmeno gli occhi di chi ti stava accanto. Stavamo gomito a gomito, in piedi. Saremo stati 80. Riuscivamo a malapena a respirare, c’erano due fessure da dove entrava l’aria”. Nessuna sosta. Nessun bagno. Niente da bere, né da mangiare. M. ce l’ha fatta. Era l’estate del 2006. Lo scorso 31 luglio 2008 a Küçükçekmece, un quartiere di Istanbul, hanno trovato lungo la strada i corpi di 13 uomini asfissiati. Scaricati in tutta fretta da un autista che li trasportava nascosti nel suo camion.
F. aveva finito i soldi una volta arrivato a Istanbul. Viveva nascosto in una cantina nel quartiere di Zeytunburn, insieme ad altri afgani. Così gli avevano proposto di guidare il gommone per partire gratis. “Non me la sono sentita”, dice due anni dopo. Non aveva mai visto il mare prima. Ma per partire con pochi soldi la sorte l’ha dovuta sfidare comunque. Hanno comprato un canotto gonfiabile di due metri. E dei remi di plastica. Erano in cinque. Hanno pagato un turco per farsi indicare da dove partire. E dopo sei ore in mare, a forza di remare, sono arrivati a Mitilini, accolti dal filo spinato del campo di detenzione dell’isola greca. Tre mesi dopo, ancora minorenne, F. si nascondeva su uno dei camion nel parcheggio del porto di Patrasso, alla volta di Bari, dove vive ancora oggi.
(18/08/08)