ROMA, 19 aprile 2009 – Il traghetto della Minoan attraccò a Venezia alle otto del mattino di un giorno d’agosto del 2008. Jumaa K. non ricorda la data. Era la sua prima volta. Dopo mesi di falliti tentativi. Dentro il rimorchio erano saliti tre giorni prima, di notte. Il camion era parcheggiato nel porto di Patrasso. Era bastato aprire lo sportello e fare in fretta prima che tornassero le volanti della polizia. Quando si contarono erano in 15, dieci dei quali ancora minorenni. Le scorte di acqua e biscotti finirono dopo 24 ore. Il sole d’estate rendeva tutto più difficile. Il terzo giorno, finalmente, il motore si accese e il camion si imbarcò. All’arrivo in Italia, il rimorchio venne scaricato dalla nave senza che nessuno si accorgesse della loro presenza. Fu soltanto la sera, intorno alle 19:00, nel piazzale del porto, che alcuni agenti delle forze dell’ordine aprirono i portelloni per un controllo.
Jumaa K. provò a scappare. Ma venne raggiunto da un agente e colpito con un calcio nella schiena. Nessuno gli chiese come si chiamasse, da che paese venisse e quanti anni avesse. Nessuno gli chiese dov’erano i suoi genitori e come mai aveva lasciato l’Afghanistan, attraversato le montagne dell’Iran, rischiato la vita nel mar Egeo, e ora di nuovo chiuso in quel camion. Riportarono tutti a bordo, e li chiusero a chiave in un bagno, con un po’ d’acqua e un piatto di spaghetti al pomodoro. Poche ore dopo, a mezzanotte, la Minoan ripartì per Patrasso. All’epoca dei fatti Jumaa aveva 16 anni. Oggi vive a Roma. Ci incontriamo nella scuola di italiano che sta frequentando, Asinitas. Vive nella capitale dal 26 novembre 2008. Grazie al sostegno di un’associazione greca ha potuto raggiungere legalmente il fratello più grande, Adel, che vive a Roma da tre anni, con un permesso di soggiorno come rifugiato politico e un lavoro come aiuto cuoco in un ristorante del centro.
Lui è solo uno delle migliaia di rifugiati afgani e irakeni che ogni anno vengono respinti dai porti italiani verso la Grecia, sulla base di un accordo di riammissione firmato dai due paesi nel 2001. Tuttavia nel suo caso c’è un’aggravante. È minorenne. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha chiesto di sospendere le riammissioni in Grecia di tutti i potenziali rifugiati, con una nota del 15 aprile 2008, perché Atene non sarebbe in grado di garantire loro una adeguata protezione. Tanto più nel caso di minori non accompagnati da familiari. Per legge sono inespellibili. Non solo. L’articolo 19 del decreto legislativo 25/2008 - che ha recepito la direttiva europea sulle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato – è chiaro: “Al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale è fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda”. Questa la teoria. La pratica invece è quella dei respingimenti per tutti, minori compresi. Lo denunciava lo scorso 31 marzo il Corriere della Sera, con un articolo di Gian Antonio Stella. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni smentì la notizia, invitando il giornalista a fare “le necessarie verifiche”. Le abbiamo fatte noi per lui. E abbiamo scoperto che il respingimento dei minori afgani dai porti italiani è una prassi. Lo stesso Jumaa K. è stato respinto tre volte, e una quarta volta ha rischiato di morire di asfissia.
La seconda volta Jumaa K. salì sulla Superfast diretta a Bari. Da solo. Riuscì a infilarsi sotto il telaio di un camion inglese in attesa dell’imbarco, mentre gli altri ragazzini afgani fuggivano dispersi dalla polizia. La nave salpò alle 18:00 per attraccare in Puglia a mezzogiorno. A scovarlo fu l’autista. Lo tirò fuori di forza, per poi riempirlo di schiaffi davanti agli agenti della Polmare che lo invitavano a calmarsi. Jumaa K. mi mostra una cicatrice sul gomito, sbattuto in malo modo contro i ferri del telaio del camion mentre l’autista lo strappava al suo nascondiglio. L’unica cosa che la polizia chiese fu se aveva pagato l’autista e quanto. Alle sue parole non prestarono attenzione. Aveva ripetuto a memoria l’unica espressione in italiano che aveva imparato: “Io fratello Roma”. Aveva anche provato con il suo inglese, decisamente buono, ma nessuno agente lo parlava. Gli dettero una bottiglietta d’acqua. Era fradicio di sudore. Stavolta lo chiusero a chiave in uno stanzino vicino alla sala macchine. Al suo ritorno a Patrasso, come la volta precedente, venne rinchiuso in un container piazzato a fianco della sede della polizia greca nel porto e utilizzato come struttura detentiva per i rifugiati trovati sui traghetti per l’Italia. Avevo già visto un video su Youtube, girato dentro il container da un ragazzino afgano con un video-fonino. Jumaa però aggiunge dei dettagli agghiaccianti. Per tutta la durata della sua detenzione, sette giorni, fu tenuto con i polsi ammanettati con altre quattro persone. Li liberavano solo per farli andare in bagno, ma sempre ammanettati con un’altra persona.
Dal primo settembre 2008 al 30 novembre, secondo il ministero dell’Interno, 1.816 persone sono state respinte dai porti dell’Adriatico di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi. La maggior parte verso la Grecia. La maggior parte afgani. Quanti minori non si sa. Perché molti dei respingimenti avviene senza nessuna verifica da parte delle associazioni che lavorano nei porti in convenzione con le Prefetture proprio per la tutela del diritto d’asilo. È lo stesso Consiglio italiano dei rifugiati (Cir) a denunciarlo. Nel corso del 2008 su 850 persone trovate sulle navi nel porto di Venezia, il Cir è stato informato soltanto di 110. E gli altri 740?
Dopo un terzo respingimento - di nuovo dal porto di Bari, insieme ad altri cinque minori nascosti tra i pancali di un camion telonato - alla fine di agosto Jumaa ci provò per l’ultima volta. Insieme a un coetaneo tajiko si nascosero dentro uno stretto compartimento sotto il telaio del rimorchio di un autoarticolato. Quando la nave partì, alle 18:00 il caldo era ancora forte. Poche ore dopo, l’ossigeno iniziò a mancare. Lo sportello da dentro non si apriva. Con le ultime forze i due iniziarono a battere pugni sulle pareti. Quando uno degli uomini di bordo li tirò fuori, i due caddero a terra svenuti. Un’altra ora e sarebbero morti. Come morì Zaher Rezai, 13 anni, investito a Venezia lo scorso 19 dicembre dal camion sotto cui si era nascosto per raggiungere l’Italia. O come il ragazzo iracheno schiacciato dagli assi di un autoarticolato lo scorso 29 marzo, sempre nel porto di Venezia, tre giorni dopo che un altro corpo senza vita era stato trovato su una nave ad Ancona. Non è difficile morire per chiedere asilo politico in Italia. Nemmeno per un minorenne. Forse è su questo il Governo dovrebbe fare “le necessarie verifiche”.