TRAPANI – Dopo l'incendio del 1999, le celle del Centro di identificazione e espulsione Vulpitta di Trapani, sono state dotate di rilevatori termici e i locali sono stati messi in sicurezza, con estintori e scale antincendio. Una mano di vernice bianca ha cancellato la memoria dell'incendio dai muri e contribuito a normalizzare la situazione. Già perché ormai la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri senza documenti, è un dato acquisito. Il loro trattenimento è considerato necessario. É previsto per legge per lo svolgimento delle pratiche di identificazione e di espulsione. Eppure molti dei trattenuti sono già identificati. B.H. ad esempio. È marocchino, è nato a Kenitra nel 1976. In Italia è arrivato nel 2000 con un visto turistico. Poi è rimasto per cercare lavoro e si è regolarizzato. Nel 2004 però ha perso il lavoro e poco dopo anche il permesso di soggiorno. Da allora vive a Messina, dove ha continuato a lavorare in nero come piastrellista. La questura di Messina conosce la sua identità, ha le sue impronte digitali. Eppure durante l'anno di carcere che si è fatto per non aver ottemperato a tre precedenti provvedimenti di espulsione, nessuno lo ha identificato. Da 31 giorni sta al Vulpitta, ma non ha ancora incontrato nessun funzionario della sua ambasciata.
Tra 29 giorni tornerà in stato di semi libertà. Semi, perché in qualsiasi momento potrà di nuovo essere fermato dalla polizia e riportato in un Cie. Ma intanto potrà tornare a lavorare in nero, per il piacere del suo datore di lavoro. Il suo non è un caso isolato. Almeno il 30% dei trattenuti nei centri di identificazione e espulsione sono già identificati al loro ingresso, secondo il rapporto della Commissione De Mistura, incaricata nel 2006 dal governo Prodi di visitare i Cie.
Li chiamano ospiti, ma per due mesi sono chiusi dietro le sbarre. Per convalidarne il trattenimento basta il parere del giudice di Pace, sebbene il ricorso alla detenzione amministrativa sia limitato dall'articolo 13 della Costituzione soltanto a “casi eccezionali di necessità ed urgenza”. E non si esce nemmeno con la richiesta d'asilo. Come nel caso di R.D., togolese, classe 1987, sbarcato a Lampedusa il 22 luglio 2007. La commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato gli ha negato la protezione. E al primo controllo dei documenti l'hanno mandato al Vulpitta, da Napoli. Una volta al Cie ha chiesto di nuovo asilo politico. Dice che il padre è stato ammazzato durante gli scontri nella capitale dopo la morte del dittatore Grassingbé Eyadéma il 5 febbraio 2005. È al Cie da 40 giorni. Attende l'esito della sua domanda. Ha paura. Non fa che ripetermi, in francese, che se lo rimpatriano lo ammazzano. Cerco di tranquillizzarlo. Anche volendo, l'efficienza dei Cie è talmente bassa che ben difficilmente sarà rimpatriato.
Soltanto 41 dei 94 trattenuti al Vulpitta nel primo semestre del 2008 sono stati rimpatriati. In un anno fanno 82 persone, sì e no otto al mese. Complice la scarsa collaborazione delle ambasciate e degli stessi immigrati. Tuttavia il Vulpitta, come gli altri Cie, non è solo una macchina inefficiente, è anche una macchina molto costosa. Secondo una relazione della Corte dei Conti, lo Stato spende ogni anno circa 1.350.000 euro per la gestione del Cie trapanese, affidata alla cooperativa Insieme. Poi ci sono le spese non quantificate dei poliziotti, carabinieri, e adesso anche militari, in servizio 24 ore su 24 all'interno del centro. E quelle dei giudici di pace che devono convalidare il trattenimento di ogni ospite e degli avvocati che vengono assegnati d'ufficio. La dinamica è la stessa a livello nazionale.
Secondo i dati del Ministero dell'Interno, solo 7.350 persone sono state rimpatriate dai centri nel 2006, a fronte di 124.000 stranieri rintracciati in posizione irregolare in Italia nello stesso periodo. La spesa per la gestione dei Cie, sempre secondo la Corte dei Conti, nel 2003 ammontava nel complesso a oltre 29 milioni di euro. Un sistema inefficiente e in contrasto con l'articolo 13 della Costituzione italiana, che però fa gola alle cooperative sociali per il consistente volume di affari che si muove intorno alla gestione dei centri. Lo sa bene il Consorzio Connecting People, di cui Cooperativa Insieme fa parte, che in tutta Italia gestisce quattro centri tra Cie, Cara e Cpa, a Cagliari, Brindisi e Trapani (Serraino Vulpitta e Salina Grande), garantendosi entrate per una decina di milioni di euro e dando lavoro a centinaia di operatori sociali
Tra 29 giorni tornerà in stato di semi libertà. Semi, perché in qualsiasi momento potrà di nuovo essere fermato dalla polizia e riportato in un Cie. Ma intanto potrà tornare a lavorare in nero, per il piacere del suo datore di lavoro. Il suo non è un caso isolato. Almeno il 30% dei trattenuti nei centri di identificazione e espulsione sono già identificati al loro ingresso, secondo il rapporto della Commissione De Mistura, incaricata nel 2006 dal governo Prodi di visitare i Cie.
Li chiamano ospiti, ma per due mesi sono chiusi dietro le sbarre. Per convalidarne il trattenimento basta il parere del giudice di Pace, sebbene il ricorso alla detenzione amministrativa sia limitato dall'articolo 13 della Costituzione soltanto a “casi eccezionali di necessità ed urgenza”. E non si esce nemmeno con la richiesta d'asilo. Come nel caso di R.D., togolese, classe 1987, sbarcato a Lampedusa il 22 luglio 2007. La commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato gli ha negato la protezione. E al primo controllo dei documenti l'hanno mandato al Vulpitta, da Napoli. Una volta al Cie ha chiesto di nuovo asilo politico. Dice che il padre è stato ammazzato durante gli scontri nella capitale dopo la morte del dittatore Grassingbé Eyadéma il 5 febbraio 2005. È al Cie da 40 giorni. Attende l'esito della sua domanda. Ha paura. Non fa che ripetermi, in francese, che se lo rimpatriano lo ammazzano. Cerco di tranquillizzarlo. Anche volendo, l'efficienza dei Cie è talmente bassa che ben difficilmente sarà rimpatriato.
Soltanto 41 dei 94 trattenuti al Vulpitta nel primo semestre del 2008 sono stati rimpatriati. In un anno fanno 82 persone, sì e no otto al mese. Complice la scarsa collaborazione delle ambasciate e degli stessi immigrati. Tuttavia il Vulpitta, come gli altri Cie, non è solo una macchina inefficiente, è anche una macchina molto costosa. Secondo una relazione della Corte dei Conti, lo Stato spende ogni anno circa 1.350.000 euro per la gestione del Cie trapanese, affidata alla cooperativa Insieme. Poi ci sono le spese non quantificate dei poliziotti, carabinieri, e adesso anche militari, in servizio 24 ore su 24 all'interno del centro. E quelle dei giudici di pace che devono convalidare il trattenimento di ogni ospite e degli avvocati che vengono assegnati d'ufficio. La dinamica è la stessa a livello nazionale.
Secondo i dati del Ministero dell'Interno, solo 7.350 persone sono state rimpatriate dai centri nel 2006, a fronte di 124.000 stranieri rintracciati in posizione irregolare in Italia nello stesso periodo. La spesa per la gestione dei Cie, sempre secondo la Corte dei Conti, nel 2003 ammontava nel complesso a oltre 29 milioni di euro. Un sistema inefficiente e in contrasto con l'articolo 13 della Costituzione italiana, che però fa gola alle cooperative sociali per il consistente volume di affari che si muove intorno alla gestione dei centri. Lo sa bene il Consorzio Connecting People, di cui Cooperativa Insieme fa parte, che in tutta Italia gestisce quattro centri tra Cie, Cara e Cpa, a Cagliari, Brindisi e Trapani (Serraino Vulpitta e Salina Grande), garantendosi entrate per una decina di milioni di euro e dando lavoro a centinaia di operatori sociali
Gabriele Del Grande, pubblicato da Redattore Sociale il 25 agosto 2008