08 September 2008

Ancora torture in Libia. Parlano i rifugiati di Salina

Pianta del piedeSALINA GRANDE – L'Italia ha firmato l'accordo di amicizia con la Libia. Presto partiranno i pattugliamenti congiunti anti immigrazione. Ma i rifugiati sbarcati sulle coste italiane, salpando proprio dalla Libia, continuano ad accusare la polizia del Colonnello Qaddafi di abusi e torture perpetrati ai danni dei migranti, anche nei campi di detenzione finanziati dall'Italia. Le ultime testimonianze vengono dai richiedenti asilo eritrei e sudanesi ospiti del centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Salina Grande, a Trapani. “La Libia è un inferno!” dichiara sotto anonimato una richiedente asilo eritrea. E mi accompagna da un gruppo di rifugiati eritrei.


Dopo una richiesta in tigrigno, uno di loro poggia il piede sul ginocchio dell'altra gamba e mi mostra le cicatrici sulla pianta del piede. Sono quattro grosse strisce rosse. Bastonare la pianta del piede è una tortura molto dolorosa, diffusa in molti Paesi. M. era stato arrestato a Tripoli durante una retata della polizia, insieme a 26 persone con cui condivideva l'appartamento, in attesa di partire per l'Italia. Racconta di essere stato pestato dagli agenti durante l'arresto e poi dopo il tentativo di fuga. È in quella occasione che è stato torturato. Era riuscito a saltare il muro di cinta del campo di detenzione di Abu Salim, a Tripoli, una vecchia struttura che contiene circa 500 persone tra uomini e donne, costretti a dormire in un unico stanzone. Ma appena fuori, venne preso. E poi torturato. Per alcune settimane non fu in grado di camminare, dice. I piedi erano gonfiati all'inverosimile. Adesso il peggio è passato. Ma ha ancora dolori e non riesce a correre.

La sua è solo una storia come tante. Le pratiche di tortura in Libia ai danni di migranti e rifugiati politici arrestati come candidati all'emigrazione verso le coste italiane, sono state denunciate dai rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International, Fortress Europe e Afvic. Anche K., sudanese, è ospitato al Cara di Salina Grande. Anche lui è passato dalla Libia per imbarcarsi per l'Italia. È sopravvissuto al genocidio del Darfur. In Libia è stato imprigionato nel carcere di Zawiyah, per un mese, insieme ad altre 280 persone. In ogni stanza erano stipate 70 persone, racconta. Le stanze non erano più grandi di cinque metri per cinque. E così a malapena c'era lo spazio per sedersi, incastrati uno addosso all'altro. Da mangiare, dice, distribuivano due volte al giorno una porzione di riso in bianco da dividere in cinque persone.

Un capitolo a parte è quello dedicato alle donne. Il rapporto “Fuga da Tripoli” pubblicato nel 2007 da Fortress Europe riporta ampiamente storie di abusi sessuali e violenze praticate nei campi di detenzione e per strada. Una richiedente asilo eritrea, ospite del Salina Grande, conferma le accuse: “In Libia ti possono fermare in ogni momento, per strada. Possono picchiarti e violentarti. È successo anche a me. Portavo i capelli lunghi. Sono cristiana. Alcuni uomini mi hanno aggredito per strada e presa da parte. Hanno iniziato a offendere me e la mia religione, e poi hanno preso delle forbici e mi hanno tagliato i capelli”. Fortunatamente la donna poi è stata lasciata andare. Ma non sempre è così, è lei stessa ad ammetterlo: “Conosco personalmente casi di ragazze eritree minorenni che sono state violentate dagli agenti libici nei campi di detenzione”. Lei, dopo l'aggressione subita nelle strade di Tripoli, non ha più avuto il coraggio nemmeno di uscire di casa. Ha atteso che la barca fosse pronta e se ne è andata.

Non appena l'accordo italo-libico del dicembre 2007 sarà operativo, come chiede da mesi il ministro dell'Interno Roberto Maroni, tutti i migranti intercettati in mare saranno ricondotti in Libia e mandati incontro a queste stesse pratiche di abusi e violenze, denunciati da anni da giornalisti e organizzazioni per la tutela dei diritti umani

Gabriele Del Grande, pubblicato da Redattore Sociale il 25 agosto 2008