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La sua versione dei fatti coincide con l’articolo pubblicato il 12 maggio 2008 dall’agenzia stampa Reuters. "A bordo eravamo una sessantina. C’erano donne e bambini. Eravamo partiti da Zuwarah, ma non avevamo la bussola, né il navigatore e nemmeno un telefono satellitare. Dopo poco il capitano ha perso la rotta, il carburante non era sufficiente e siamo rimasti a secco”. Godpower ha visto morire i suoi compagni di viaggio uno a uno. “Non posso trovare le parole. Sono morti sotto i miei occhi. Siamo rimasti una settimana in mare. Eravamo ustionati. Bevevamo le nostre urine. Io dalla fame mangiavo pezzi di plastica delle mie ciabatte”. Poi finalmente i soccorsi dei tunisini e il ricovero in ospedale, a Monastir. Godpower non ricorda la visita di nessun funzionario dell’Unhcr. Dopo una settimana di ricovero la polizia li ha espulsi, riaccompagnandoli alla frontiera libica a Ras Jdayr.
“Non ci hanno consegnato alle autorità libiche – ricorda Godpower –, ci hanno mostrato un passaggio non pattugliato e abbiamo proseguito a piedi”. Dieci giorni dopo Godpower partiva di nuovo. Con un gesto di ambigua generosità i loro connection men li avevano piazzati gratuitamente su un altro gommone. Il 26 maggio Godpower sbarcava a Lampedusa, dopo tre giorni in mare. Oggi, a tre mesi di distanza, Godpower ha paura. Paura che essere sopravvissuto a quel naufragio non sia servito a niente. La commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato ha iniziato a rilasciare i primi dinieghi alle richieste d’asilo politico dei cittadini nigeriani ospiti del Cara barese. Godpower ha paura di essere rimpatriato. “Non è facile rischiare la tua vita per arrivare in Europa e poi vedersi rispedire a casa”