
In fondo è molto più reale la schermata di un pc o il video clip dell’ultimo tormentone hip hop che gli asini fuori o gli strilli del muezzin dagli altoparlanti appesi ai muri delle moschee. Nessuno più vuole tirare ogni mattina carretti carichi di arance per le spremute, o mucchi di panni e vestiti cinesi per il mercato. Sui marciapiedi siede una generazione sconfitta. Sugli sgabelli tra spazzole, lucidi e sigarette, giovani e vecchi aspettano dietro ogni angolo scarpe da lustrare per pochi centesimi. E in piazza al mattino, mentre gli spazzini scopano le vie del mercato, seduti una fila di uomini e secchielli aspettano che qualcuno abbia bisogno di un muratore, un idraulico o un imbianchino per una giornata. Qui ufficialmente la disoccupazione non esiste. Sulla carta d’identità alla voce professione in questi casi si scrive «alla giornata».
Siamo in pieno ramadan, tutta la vita della città è spostata in avanti di qualche ora. Al mattino fino alle 11,00 non si trova niente di aperto. Per strada c’è silenzio, fa caldo. È verso le quattro del pomeriggio che la gente inizia a raccogliersi intorno alle panetterie e ai mercati, mentre dalle case sale il profumo dei dolci e delle zuppe del futur, la merenda dopo il tramonto che rompe il digiuno dall’alba del mese santo dell’Islam. Per strada iniziano a bollire le teiere. L’odore di menta si mischia alla puzza degli scarichi dei vecchi diesel che appestano l’aria ogni volta che passano.
«Italiano? Come stai? Totti». Tutti sanno qualche parola in italiano e un ragazzo sui dieci ha una felpa degli azzurri campioni del mondo. In piazza sono arrivati gli incantatori di serpenti e i vecchi si sfidano a spingere sul binario di un piano inclinato un blocco di ferro per colpire il petardo in cima alla vecchia giostra. Poco lontano, nei giardinetti dietro il quartiere francese Village, i più giovani suonano la chitarra cantando i Nirvana mentre i bambini giocano a nascondersi nei vagoni dei treni merci fermi in stazione in partenza con il carico di fosfato verso Casablanca. Improvvisamente la voce di Toto Cutugno esce dallo stereo di un banchetto di chiocciole bollite. «Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano. Lasciatemi cantare una canzone piano piano». Discrete, le puttane impellicciate sui tacchi degli stivali a punta, jeans, mascara e rossetto, si muovono verso i locali del caffè Ranyasin, accanto al centro commerciale. Qui finalmente incontro Paco Belgacem.
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A partire sono soprattutto giovani e giovanissimi, ultimamente anche ragazze e bambini molto piccoli. Dal Marocco si parte dalle case dei contadini come da quelle delle “buone famiglie”. In cerca di un lavoro o lungo la scia di un miraggio che ha preso forma dai telefilm e dai racconti di chi torna. Perché clandestini è presto detto. Avere un visto turistico da questi parti è praticamente impossibile. Entrare per motivi di lavoro pure, perché nessuno assumerà mai uno straniero che nemmeno conosce.
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A casa Errafaly ci aspetta il papà di Karima, El‘arbi, con la piccolina di casa, Nadia, sei anni, per mano. El‘arbi lavora come calzolaio, ripara le vecchie scarpe. Per l’occasione si è messo il vestito delle feste. Una vecchia giacca italiana marrone a quadretti. Sorride sotto i baffi, non parla francese; Paco fa da interprete. Lasciamo le scarpe sulla soglia di una piccola stanza, l’unica a fianco della cucina a gas. Seduti sui tappeti, in mezzo ai cuscini, sotto un soffitto verde di telo cerato, ci aspettano nella penombra i familiari dei tre ragazzi insieme a un nutrito gruppo di bambini. Tra loro c’è anche Ashraf, il figlio di sei anni di Karima. Karima era la primogenita di sei figli. Aveva divorziato due anni prima e viveva con il bambino a casa dei suoi a Boulanoir. A Khouribga lavorava come domestica e con i pochi risparmi aiutava il papà a mandare a scuola i tre fratelli più piccoli. Intanto però ogni mese riusciva a mettere da parte il suo piccolo tesoro. Voleva andar via dalle baracche di Boulanoir, dalle umiliazioni del lavoro, dalle facili parole contro una donna divorziata. Ne aveva parlato in segreto a Samira, che a Boulanoir era l’unica amica. La fortuna le attendeva aldilà del mare. Nel quartiere girava voce di un contatto a Tripoli. Alla fine, in tutto segreto, partirono in quattro tra luglio e agosto. Samira ai suoi non volle raccontare niente, diceva che aveva trovato un lavoro a Casablanca e che sarebbe stata via qualche mese. Soltanto pochi giorni prima della tragedia confessò ai genitori che era diretta in Italia. È stata quella l’ultima volta che l’hanno sentita. Samira era la più piccola a casa. Pochi giorni prima del nostro incontro El‘arbi e Mohamed, il padre di Samira, sono stati convocati all’anagrafe del comune.
Mi mostrano una lettera scritta in arabo. È il certificato di morte delle due figlie. Dice che sono annegate il 19 agosto al largo di Lampedusa. Per rimpatriare le salme servono 50.000 dirham, circa 5.000 euro. A inchiodare le scarpe il papà di Karima riesce a guadagnare sì e no mille dirham al mese. E già adesso iniziano a bussare alla porta i conoscenti che avevano prestato alle due ragazze i soldi per partire, con la promessa che una volta in Italia li avrebbero velocemente restituiti. Niente sconti. In tutto questo il governo marocchino è completamente latitante. I giovani clandestini sono rinnegati anche dal loro Paese. Nessuno pagherà per il rimpatrio delle loro salme. Nessuno garantirà una pensione o un indennizzo ai familiari o ai figli a carico. Tutto questo Ashraf non lo sa. Lui ogni mattina continua a fare la cartella per andare a scuola. E al pomeriggio quando fa i compiti disegna la mamma a casa. Per lui è solo partita per un viaggio, poi torna. Quello che non capisce è perché i nonni sono sempre tristi.
Di Sa‘idi invece non si conosce la sorte. L’unico sopravvissuto dei quattro ragazzi di Boulanoir in un primo momento aveva giurato di averlo visto a bordo della nave, poi ha ritrattato. La moglie spera sia stato arrestato prima di salire a bordo dell’imbarcazione. Ma la storia è controversa. Sa‘idi era orfano e primogenito di cinque fratelli. Aveva 26 anni ma fin dall’adolescenza lavorava per aiutare i fratelli più piccoli. Si era sposato nel 2003 con Amina. La moglie aspettava il primo figlio. Quel bambino non doveva conoscere la durezza della vita, il costo delle rinunce, le umiliazioni che da sempre accompagnavano gli anni del padre. Aveva iniziato a studiare l’italiano con un piccolo manuale comprato in una cartoleria in città e intanto coltivava in segreto le sue ambizioni, nel tempo libero tra i lavoretti da manovale che riusciva a trovare un giorno sì e un giorno no. Dopotutto tanti dei ragazzi con cui era cresciuto per strada erano tornati dall’Italia con macchine nuove metallizzate, e se ne erano andati da Boulanoir nei nuovi quartieri residenziali. Non sarebbe stato da meno. Perché non provare? Morire? E quella era vita? Era deciso. Si indebitò e partì. Per non dare preoccupazioni alla moglie, incinta al nono mese, non le disse niente dell’Italia; per lei era andato a lavorare in Libia. Si confidava con la sorella, a Casablanca. Voleva ritornare dopo pochi mesi con un bel regalo per il bambino. Pochi giorni prima della tragedia, il giallo. Sa‘idi aveva chiamato la sorella, allarmato. Diceva che non voleva più partire, che doveva tornare in Marocco. Era agitato. All’improvviso si sentiva troppo attaccato alla vita per rischiare tutto. Ma Walid, il passeur, gli aveva rubato tutti i documenti; i testimoni non possono tornare indietro. Sedici giorni più tardi il piccolo Amin nasceva orfano.