Khouribga è una città emigrata. Una macchina su due è targata Torino. Nei suq tra i banchetti di Dolce e Gabbana, Nike e Versace made in China, impazzano vocabolari e grammatiche per l’italiano. Qualche chilometro fuori dal centro crescono quartieri fantasma di villini pagati in euro e abitati tre settimane l’anno d’estate. Sì perché ogni agosto ritorna chi c’è l’ha fatta. Emigrare è uno status. Chi riesce a partire guadagna rispetto. La destinazione è una sola, l’Italia, soprattutto Torino e il Piemonte. Dalla città dei fosfati e dalle sue campagne sono partiti non pochi degli 8.146 marocchini sbarcati in Sicilia nel 2006, più di un terzo dei 22.016 giovani arrivati via mare in Italia in tutto l’anno. I loro racconti al ritorno alimentano un immaginario già viziato da anni di studi eurocentrici, pellicole americane, telefilm italiani e francesi sui canali satellitari, pubblicità, campionati di calcio, ore e ore su internet nei cyber café sempre affollati a ogni crocicchio della città. Tutti i più giovani hanno amici della riva nord del Mediterraneo con cui chattare su Skype o su Messenger. Bisogna partire.
In fondo è molto più reale la schermata di un pc o il video clip dell’ultimo tormentone hip hop che gli asini fuori o gli strilli del muezzin dagli altoparlanti appesi ai muri delle moschee. Nessuno più vuole tirare ogni mattina carretti carichi di arance per le spremute, o mucchi di panni e vestiti cinesi per il mercato. Sui marciapiedi siede una generazione sconfitta. Sugli sgabelli tra spazzole, lucidi e sigarette, giovani e vecchi aspettano dietro ogni angolo scarpe da lustrare per pochi centesimi. E in piazza al mattino, mentre gli spazzini scopano le vie del mercato, seduti una fila di uomini e secchielli aspettano che qualcuno abbia bisogno di un muratore, un idraulico o un imbianchino per una giornata. Qui ufficialmente la disoccupazione non esiste. Sulla carta d’identità alla voce professione in questi casi si scrive «alla giornata».
Siamo in pieno ramadan, tutta la vita della città è spostata in avanti di qualche ora. Al mattino fino alle 11,00 non si trova niente di aperto. Per strada c’è silenzio, fa caldo. È verso le quattro del pomeriggio che la gente inizia a raccogliersi intorno alle panetterie e ai mercati, mentre dalle case sale il profumo dei dolci e delle zuppe del futur, la merenda dopo il tramonto che rompe il digiuno dall’alba del mese santo dell’Islam. Per strada iniziano a bollire le teiere. L’odore di menta si mischia alla puzza degli scarichi dei vecchi diesel che appestano l’aria ogni volta che passano.
Poco lontano qualcuno ha acceso un fuoco per bruciare le sterpaglie dietro casa. Intanto dalle bancarelle di musica al suq canta la voce di Khaled, ‘Aisha, mentre a pochi metri un vecchio straccione coperto di rughe piange in un altoparlante versetti coranici mandati a memoria, provando a coprire il rumore assordante di motorini smarmittati e scooter truccati che si lanciano a colpi di clacson nel formicaio di gente. Dopo poche ore, appena finito il futur, verso le otto, il centro di Khouribga è di nuovo in ebollizione. L’Olympique oggi ha battuto in casa il Far, la squadra di calcio delle forze armate, e mantiene salda la prima posizione in campionato. Un corteo di tifosi bianco verdi e tamburi ha da poco riempito di cori la città. I caffè sono pieni di gente. Nelle strette stradine del suq i macellai strillano le offerte speciali del macinato, che si può comodamente preparare alla griglia per un kafta nel banco vicino, sotto lo sguardo bonario dell’onnipresente Mohamed VI, il giovane re del Marocco, la cui fotografia pende dai muri di tutti i locali pubblici.
«Italiano? Come stai? Totti». Tutti sanno qualche parola in italiano e un ragazzo sui dieci ha una felpa degli azzurri campioni del mondo. In piazza sono arrivati gli incantatori di serpenti e i vecchi si sfidano a spingere sul binario di un piano inclinato un blocco di ferro per colpire il petardo in cima alla vecchia giostra. Poco lontano, nei giardinetti dietro il quartiere francese Village, i più giovani suonano la chitarra cantando i Nirvana mentre i bambini giocano a nascondersi nei vagoni dei treni merci fermi in stazione in partenza con il carico di fosfato verso Casablanca. Improvvisamente la voce di Toto Cutugno esce dallo stereo di un banchetto di chiocciole bollite. «Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano. Lasciatemi cantare una canzone piano piano». Discrete, le puttane impellicciate sui tacchi degli stivali a punta, jeans, mascara e rossetto, si muovono verso i locali del caffè Ranyasin, accanto al centro commerciale. Qui finalmente incontro Paco Belgacem.
Lavora con l’associazione Amis et familles des victimes de l’immigration clandestine (Afvic) e ha curato un dossier sulle vittime del naufragio di Lampedusa del 19 agosto. Ordiniamo un qahwa, caffè. Mi spiega come funziona la catena dei passeurs, ovvero come comprare il biglietto Khouribga-Lampedusa solo andata. Al livello più basso lavorano i recruteurs, i reclutatori. Sono marocchini residenti nelle città dei candidati all’emigrazione clandestina. Si occupano di vendere i contatti in Libia a chi vuole partire. Il cliente ottimale è una persona poco istruita, un po’ ingenua e ovviamente in grado di pagare. Gente così è più facilmente ricattabile, vive fuori dallo stato di diritto, non denuncerà mai nessuno qualunque cosa succeda. Al contrario, se tutto va bene le famiglie offrono riconoscenza al benefattore, al punto che alcuni passeurs oggi hanno fatto carriera politica. Uno fra tutti, il sindaco di Fuqara’, un villaggio alle porte di Khouribga, eletto con i voti delle famiglie dei ragazzi che ha aiutato a partire per l’Italia. Tuttavia questo passaggio non è obbligato. In Libia i marocchini possono entrare legalmente, senza bisogno di un visto, con qualsiasi volo Casablanca-Tripoli. Basta avere un passaporto valido. Molti quindi, fondamentalmente i più istruiti, in Libia ci arrivano da soli e i numeri di telefono dei passeurs se li fanno dare dagli amici o dai parenti che il viaggio lo hanno già fatto. Una volta a Tripoli i passeurs contattati, di solito libici, portano i candidati alla traversata verso Zuwarah, una città al confine con la Tunisia, lungo le cui coste si imbarcano per la Sicilia nel giro di qualche giorno. Si paga in anticipo, in dollari o in euro, contanti.
I candidati sono ospitati da un albergatore della rete, a volte in una pensione, a volte nascosti in grandi ville, a volte ammucchiati in baracche nelle brulle campagne o in piccole case di periferia. Polizia e passeurs formano un’unica società. Di solito l’organizzazione acquista la protezione delle forze dell’ordine e contratta modi e tempi delle retate necessarie a salvaguardare l’immagine dei gendarmi. A ogni modo, anche gli arresti dei candidati fanno bene alle casse della società. I passeurs hanno già riscosso i loro biglietti, non più rimborsabili e validi per una sola corsa. La polizia può ingrassare sulle tangenti che i detenuti saranno disposti a pagare, in contanti o tramite un comodo Western Union, per farsi aprire le celle. Quando è pronta la nave, comprata al ribasso o rubata, il capo ordina la partenza e trasporta nella notte i passeggeri in riva al mare, lontano da sguardi indiscreti e al riparo dalla polizia, eccetto nei casi in cui quest’ultima non sia già stata comprata. Un’altra persona si occupa di guidare l’imbarcazione. Anche se ultimamente, a dire il vero, sempre più raramente siede un uomo della rete al timone. Il biglietto può costare fino a 3.000 euro ma può anche essere gratuito. Tutto dipende dalle conoscenze e dalle circostanze.
A partire sono soprattutto giovani e giovanissimi, ultimamente anche ragazze e bambini molto piccoli. Dal Marocco si parte dalle case dei contadini come da quelle delle “buone famiglie”. In cerca di un lavoro o lungo la scia di un miraggio che ha preso forma dai telefilm e dai racconti di chi torna. Perché clandestini è presto detto. Avere un visto turistico da questi parti è praticamente impossibile. Entrare per motivi di lavoro pure, perché nessuno assumerà mai uno straniero che nemmeno conosce.
Insieme a Paco il giorno dopo ci rechiamo a Boulanoir. Sono soltanto tre chilometri dal centre ville, eppure sembra un altro paese. Fondamentalmente è un tappeto di lamiere e cartone, ruggine e teli di nylon. Non ci sono strade né fognature e non c’è acqua corrente. L’elettricità arriva da allacciamenti abusivi. Si arriva a piedi, in discesa, a un quarto d’ora dalla piazzetta del capolinea dei taxi. Tutto intorno dura terra brulla di argilla e pietre. Gruppi di bimbi in grembiule ritornano a casa dall’asilo o dalla scuola elementare. Lontano all’orizzonte le montagne delle miniere del fosfato e i nuovi quartieri costruiti dagli emigrati. Allineate, le padelle delle parabole guardano in direzione opposta. Ce ne sono di ogni misura, alcune artigianali, altre molto vecchie larghe anche un metro e mezzo. Mulinelli di vento agitano in aria la polvere. Dalle gabbie di questo profondo Marocco erano evasi lo scorso agosto tre vicini di casa: Karima Errafaly, classe 1978, Samira al-Gari, 1980, e Sa‘idi Mohamed, anche lui ventiseienne.
A casa Errafaly ci aspetta il papà di Karima, El‘arbi, con la piccolina di casa, Nadia, sei anni, per mano. El‘arbi lavora come calzolaio, ripara le vecchie scarpe. Per l’occasione si è messo il vestito delle feste. Una vecchia giacca italiana marrone a quadretti. Sorride sotto i baffi, non parla francese; Paco fa da interprete. Lasciamo le scarpe sulla soglia di una piccola stanza, l’unica a fianco della cucina a gas. Seduti sui tappeti, in mezzo ai cuscini, sotto un soffitto verde di telo cerato, ci aspettano nella penombra i familiari dei tre ragazzi insieme a un nutrito gruppo di bambini. Tra loro c’è anche Ashraf, il figlio di sei anni di Karima. Karima era la primogenita di sei figli. Aveva divorziato due anni prima e viveva con il bambino a casa dei suoi a Boulanoir. A Khouribga lavorava come domestica e con i pochi risparmi aiutava il papà a mandare a scuola i tre fratelli più piccoli. Intanto però ogni mese riusciva a mettere da parte il suo piccolo tesoro. Voleva andar via dalle baracche di Boulanoir, dalle umiliazioni del lavoro, dalle facili parole contro una donna divorziata. Ne aveva parlato in segreto a Samira, che a Boulanoir era l’unica amica. La fortuna le attendeva aldilà del mare. Nel quartiere girava voce di un contatto a Tripoli. Alla fine, in tutto segreto, partirono in quattro tra luglio e agosto. Samira ai suoi non volle raccontare niente, diceva che aveva trovato un lavoro a Casablanca e che sarebbe stata via qualche mese. Soltanto pochi giorni prima della tragedia confessò ai genitori che era diretta in Italia. È stata quella l’ultima volta che l’hanno sentita. Samira era la più piccola a casa. Pochi giorni prima del nostro incontro El‘arbi e Mohamed, il padre di Samira, sono stati convocati all’anagrafe del comune.
Mi mostrano una lettera scritta in arabo. È il certificato di morte delle due figlie. Dice che sono annegate il 19 agosto al largo di Lampedusa. Per rimpatriare le salme servono 50.000 dirham, circa 5.000 euro. A inchiodare le scarpe il papà di Karima riesce a guadagnare sì e no mille dirham al mese. E già adesso iniziano a bussare alla porta i conoscenti che avevano prestato alle due ragazze i soldi per partire, con la promessa che una volta in Italia li avrebbero velocemente restituiti. Niente sconti. In tutto questo il governo marocchino è completamente latitante. I giovani clandestini sono rinnegati anche dal loro Paese. Nessuno pagherà per il rimpatrio delle loro salme. Nessuno garantirà una pensione o un indennizzo ai familiari o ai figli a carico. Tutto questo Ashraf non lo sa. Lui ogni mattina continua a fare la cartella per andare a scuola. E al pomeriggio quando fa i compiti disegna la mamma a casa. Per lui è solo partita per un viaggio, poi torna. Quello che non capisce è perché i nonni sono sempre tristi.
Di Sa‘idi invece non si conosce la sorte. L’unico sopravvissuto dei quattro ragazzi di Boulanoir in un primo momento aveva giurato di averlo visto a bordo della nave, poi ha ritrattato. La moglie spera sia stato arrestato prima di salire a bordo dell’imbarcazione. Ma la storia è controversa. Sa‘idi era orfano e primogenito di cinque fratelli. Aveva 26 anni ma fin dall’adolescenza lavorava per aiutare i fratelli più piccoli. Si era sposato nel 2003 con Amina. La moglie aspettava il primo figlio. Quel bambino non doveva conoscere la durezza della vita, il costo delle rinunce, le umiliazioni che da sempre accompagnavano gli anni del padre. Aveva iniziato a studiare l’italiano con un piccolo manuale comprato in una cartoleria in città e intanto coltivava in segreto le sue ambizioni, nel tempo libero tra i lavoretti da manovale che riusciva a trovare un giorno sì e un giorno no. Dopotutto tanti dei ragazzi con cui era cresciuto per strada erano tornati dall’Italia con macchine nuove metallizzate, e se ne erano andati da Boulanoir nei nuovi quartieri residenziali. Non sarebbe stato da meno. Perché non provare? Morire? E quella era vita? Era deciso. Si indebitò e partì. Per non dare preoccupazioni alla moglie, incinta al nono mese, non le disse niente dell’Italia; per lei era andato a lavorare in Libia. Si confidava con la sorella, a Casablanca. Voleva ritornare dopo pochi mesi con un bel regalo per il bambino. Pochi giorni prima della tragedia, il giallo. Sa‘idi aveva chiamato la sorella, allarmato. Diceva che non voleva più partire, che doveva tornare in Marocco. Era agitato. All’improvviso si sentiva troppo attaccato alla vita per rischiare tutto. Ma Walid, il passeur, gli aveva rubato tutti i documenti; i testimoni non possono tornare indietro. Sedici giorni più tardi il piccolo Amin nasceva orfano.