foto di Mashid Mohadjerin |
Sì perché parliamo di 17.500 euro l'anno (48 euro al giorno) per ogni ospite, in attesa che lo Stato benedica la sua clandestinità. Servizi di accoglienza, mediazione, corsi di italiano, formazione, tutto inutile. Perché quella gente finirà presto in mezzo alla strada. Sì perché a tutte le persone arrivate a Lampedusa dalla Libia è stato fatto chiedere asilo politico. E adesso che iniziano le audizioni presso le commissioni territoriali del riconoscimento dello status di rifugiato, ci si accorge che è stata una pessima scelta.
Nessuno dei profughi infatti ha mai fatto politica né ha mai subito repressioni per le proprie idee. E quasi nessuno è libico, sono tutti africani e asiatici. Semplici lavoratori che vivevano stabilmente a Tripoli e che sono dovuti scappare dopo l'inizio della guerra. Alcuni di propria volontà, altri semplicemente deportati in Italia dalle milizie di Gheddafi. Motivo per cui la burocrazia italiana oggi non vede ostacoli alla loro espulsione.
Con l'eccezione di somali, eritrei e ivoriani, i cui paesi di origine sono ancora oggi instabili, per quasi tutti gli altri profughi si profila il diniego. Che non significa il rimpatrio. Ma qualcosa di molto peggio. Significa la vita clandestina. Restare in un paese, l'Italia, senza poter lavorare, né studiare, né affittare una casa. Vivere senza poter esistere. Con la continua paura di essere fermati dalla polizia per un controllo di identità. Dopo che sulla gestione delle loro vite si è finanziato il circuito della accoglienza. Per carità, niente di nuovo rispetto a quello che accadeva negli anni passati. Le migliaia di ghanesi e nigeriani senza documenti di Castelvolturno, a Caserta, tanto per fare un esempio, sono tutti ex richiedenti asilo politico sbarcati a Lampedusa e abbandonati a se stessi con un diniego dopo aver trascorso un anno nei centri di accoglienza di Crotone o Bari. Ma forse è arrivato il momento di dire basta.
Perché per la prima volta le contraddizioni del sistema sono sotto gli occhi di tutti. Perché per la prima volta a gestire l'accoglienza non sono grosse cooperative tenute al silenzio dalla necessità di rinnovare appalti milionari con le Prefetture. Ma sono invece centinaia di realtà associative e migliaia di operatori sociali in buona fede. A cui chiediamo a gran voce di mobilitarsi. Per non essere complici, utili idioti al servizio della fabbrica della clandestinità.
Online c'è una petizione, è stata lanciata dal sito Melting Pot. Si chiama "Diritto di scelta". Chiede che il governo, come previsto dalla legge, riconosca un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari a tutti i profughi di Libia. Esattamente come è stato fatto ad aprile con 14.000 tunisini. Saranno poi loro a scegliere cosa fare della propria vita. Se restare in Italia nonostante la crisi, se provare a proseguire il viaggio raggiungendo gli amici sparsi in Europa. O se invece - e probabilmente sarebbe la scelta migliore per tanti - ritornare in Libia o nei propri paesi, se qui non troveranno le condizioni di lavoro adeguate. Il che aiuterebbe anche le casse italiane. Visto che non ha senso spendere 1.400 euro al mese per ospitare una persona a cui allo stesso tempo si vieta per legge di lavorare.
Finora hanno aderito quasi tremila persone, ma servono migliaia di nuove adesioni se vogliamo fare sentire la nostra voce presso il governo. Possibilmente prima che altre 20.000 persone finiscano ai margini delle nostre città. Intrappolati nella fortezza Europa. Costretti a ripararsi nelle case occupate delle grandi città, a fare la fila dai caporali prima per un lavoretto alla giornata in un cantiere, poi in un campo di pomodori, e infine nei circuiti della microcriminalità. Dopo che su sulle gestione delle loro vite sono stati investite centinaia di milioni di euro.