Mahieddine, ferito all'occhio, torna a manifestare a piazza Tahrir |
Il naso non brucia più. La pioggia leggera di ieri pomeriggio ha tolto dalle strade le ultime tracce dell'odore acre dei gas lacrimogeni. Il resto l'hanno fatto le centinaia di migliaia di persone confluite nel luogo simbolo della rivoluzione egiziana: maidan Tahrir, piazza della liberazione. Uomini, donne e bambini. Giovani e vecchi. Uno spaccato dell'intera società. Ci sono i ragazzi dei quartieri popolari e i figli della borghesia radical chic. Il movimento 6 aprile, i comitati del No Military Trials e i rappresentati di molti partiti. Dai laici ai salafiti. Insieme, ancora una volta, nell'ultima occasione utile prima delle elezioni del parlamento previste per lunedì 28 novembre. Per dire una sola cosa: che la rivoluzione non finisce con una consultazione elettorale. Ash-sha3ab yurid is9aT al mushir. Il popolo vuole la caduta del generale, Mohamed Huseyn Tantawi, il capo delle forze armate a cui è affidata la transizione fino alle prossime elezioni presidenziali, annunciate per il giugno del 2012.
“L'esercito deve tornare alle sue funzioni e lasciare a noi civili la politica”. Samah non ha dubbi su questo. Al punto che da quattro giorni non si presenta al lavoro per presidiare piazza Tahrir. È venuto al Cairo apposta da Port Said, 200 km di distanza, dove lavora come ingegnere chimico con l'italiana “Costruzioni meccaniche Bernardini”. Dieci mesi fa, il 25 gennaio, quando tutto ebbe inizio, Samah era in piazza contro il regime. E come lui tutti i ragazzi che oggi sono tornati a Tahrir. Con la differenza che allora cantavano “il popolo e l'esercito sono una sola mano” e portavano fiori ai soldati in piazza dipingendoli come i salvatori del popolo egiziano e i difensori della democrazia. Una fiducia forse ingenua. Che è inevitabilmente venuta meno dopo il massacro dei copti a Maspero lo scorso 9 ottobre e dopo i 41 morti dei giorni scorsi a Tahrir.
I segni della battaglia dei giorni scorsi sono ancora evidenti. Le strade che da piazza Tahrir portano al ministero dell'Interno sono sbarrate con il filo spinato e presidiate dall'esercito. In particolare via Mohammad Mahmud, teatro degli scontri più violenti, che è addirittura chiusa da un muro di blocchi di pietra. Tutto intorno, macchie nere di bruciato sull'asfalto, vetrine in frantumi, e marciapiedi scassati per fare le sassaiole. Tutto è iniziato sabato scorso con lo sgombero di un presidio dei familiari dei martiri e dei feriti della rivoluzione, che era stato indetto dopo la grande manifestazione di venerdì contro i militari. Il resto è stata una incontrollata escalation di violenza. Per quattro giorni la polizia ha sparato ininterrottamente gas lacrimogeni sui manifestanti. E in più di una occasione ha utilizzato armi da fuoco, sparando proiettili di gomma, ma anche proiettili veri e cartucce da caccia con pallini di piombo.
Fino a mercoledì sera, piazza Tahrir era un grande ospedale da campo. Di cui oggi rimangono soltanto gli striscioni del sindacato dei medici e le lunghe file di volontari in attesa davanti alle ambulanze per donare il sangue. I medici hanno avuto un ruolo fondamentale per prestare i primi soccorsi ai manifestanti intossicati dai gas lacrimogeni, feriti dalle armi da fuoco, o picchiati dagli agenti di polizia. Al punto che anche uno dei medici è morto asfissiato per effetto dei gas lacrimogeni sparati su piazza Tahrir mercoledì scorso. Si tratta di una dottoressa, Rania Fouad. Il suo nome si aggiunge alla lista redatta dallo stesso ministero della Salute che parla ufficialmente di 41 ragazzi uccisi a Tahrir da sabato. Mentre il numero dei feriti sarebbe di diverse centinaia.
Un passante davanti alla foto del martire Sa3id Abu Ghezal |
L'hanno colpito all'occhio destro. È stato operato, il dottore dice che non perderà la vista. È stato fortunato. Ad altri invece è andata peggio. Al punto che qualcuno ha deciso di cambiare il nome della via degli scontri. Da “via Mohammad Mahmud” a “via degli occhi della libertà”. Shar3a 3uyun al 7urriya. È scritto a caratteri cubitali su uno striscione appeso all'ingresso della strada, presidiata da un cordone di civili che evita a chiunque di avvicinarsi al muro che chiude la strada in direzione del ministero dell'Interno.
Sono stati quei morti la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Insieme alle decine di arresti di attivisti, giornalisti, e cittadini comuni. Trattenuti e in alcuni casi arrestati, senza processo. Altre volte rilasciati dopo poche ore, come è accaduto a molti giornalisti egiziani, ma fatti oggetto di maltrattamenti e abusi, anche sessuali, come denunciato dalla giornalista egiziana Mona Althaway.
Il generale Tantawi ha promesso un 'inchiesta su tutti questi fatti. Ma molti non hanno più fiducia. Dopo aver visto come è andata con il massacro di Maspero, finito con 24 copti ammazzati in piazza e con l'arresto del blogger Alaa Abd el Fattah, che aveva denunciato le responsabilità dell'esercito nella strage. Era il 9 ottobre. Da allora è passato un mese e mezzo, Alaa è ancora in carcere. E tra pochi giorni la moglie partorirà il loro primo figlio senza di lui.
Non è un buon segno per questo Egitto. A maggior ragione se vi si aggiunge il fatto che oggi piazza Tahrir rappresenta soltanto una parte dell'opinione pubblica egiziana. Infatti nelle stesse ore che dal maidan si levavano gli slogan contro Tantawi, a un paio di chilometri di distanza scendevano in strada i sostenitori dell'esercito. Piazza 3Abbasiyah. Circa 5.000 persone, riunite per dare sostegno all'esercito e alla polizia. Una folla particolare, fatta di poliziotti, come Dina e Mahmud, che hanno tenuto a mostrarmi le loro tessere. E di ex militari in pensione. Come il signor Ramadan, convinto che dietro a Tahrir ci sia un grande complotto internazionale. Ovvero che gli Usa e Israele vogliano destabilizzare l'Egitto per indebolirlo alla vigilia delle elezioni.
La manifestazione di sostegno a Tantawi a piazza 3Abbasiyah |
La cosa paradossale è che piazza 3Abbasiyah e piazza Tahrir hanno molto in comune. Le stesse bandiere egiziane, con su scritto “I love Egypt”. Le stesse canzoni patriottiche di Abdel Helim Hafez. E persino un passato comune. Sì perché buona parte dei manifestanti di piazza 3Abbasiyah hanno partecipato alle manifestazioni di piazza della rivoluzione del 25 gennaio. Ma adesso hanno invertito la rotta. E all'incertezza che deriverebbe dalle dimissioni della giunta militare preferiscono la stabilità. Anche perché le elezioni sono ormai alle porte.
La sfida elettorale, per semplificare, si gioca tra quattro grandi aree politiche: gli islamisti moderati, i salafiti, la sinistra e i liberali. I favoriti sono i Fratelli Musulmani, riuniti sotto il Partito della Giustizia e della Libertà (Hizb al Hurriya wa al 3Adala), che a sua volta si presenta con una lista allargata ad altri partiti, chiamata “Alleanza Democratica”. Anche se rischiano di aver perso parte del loro consenso con i tentennamenti mostrati negli ultimi giorni con gli appelli ai manifestanti a tornare a casa e con il mancato sostegno alla grande manifestazione di oggi. Voti che potrebbero andare, ad esempio, al partito dei salafiti, Hizb an Nur (il partito della Luce), che si presenta invece nella lista della “Alleanza Islamica”. A godere di ampio consenso però sono anche altre due liste in ballo. Quella dei liberali, confluiti nella lista “Blocco Egiziano” (Al Kutla), insieme al neonato Partito degli Egiziani Liberi, del miliardario copto Naghib Essawiris (proprietario, in Italia, della Wind). E quella delle storiche forze della sinistra, riunite sotto la lista de “La rivoluzione continua”, insieme a una sezione giovanile dei Fratelli Musulmani, fuoriusciti dal partito.
Le incognite sul risultato elettorale sono moltissime. A partire dall'alto tasso di analfabetismo che potrebbe complicare le operazioni, anche perché ogni elettore deve riempire due schede elettorali, una per i rappresentanti degli operai e dei contadini, l'altra per i rappresentanti dei professionisti. Forse è per ovviare a questo problema che i simboli assegnati alle liste rappresentano oggetti domestici tanto imbarazzanti quanto facilmente riconoscibili e memorizzabili: dal frullatore alla banana, dal mango allo spazzolino da denti, dal pallone alla tazzina del caffè e altro ancora.
Ad ogni modo, i seggi apriranno lunedì 28 novembre al Cairo e Alexandria. Poi sarà la volta delle altre città. Tre turni per la prima camera del parlamento (Maglis Sha3biya) e altri tre turni per la seconda (Maglis Shur3a). Divisi in base alle regioni. E poi altrettanti ballottaggi, una settimana dopo ogni turno nelle rispettive circoscrizioni. Insomma, una lunghissima operazione che si concluderà soltanto a marzo. Ma che di fatto misurerà il peso reale delle forze in campo. E che soprattutto svelerà una volta per tutte le reali ambizioni dei generali, quando davvero si tratterà, per la prima volta nella storia egiziana, di cedere il potere ai civili.