22 October 2011

La scheda bianca dei harraga

Quattro ragazzi di Jebal Lahmer, Tunisi, dispersi al largo di Lampedusa

Se è pressoché certo che il primo partito a uscire dalle urne delle prossime elezioni in Tunisia sarà il Nahda, per il resto regna l'incertezza. Le stime più attendibili danno un 30% agli islamisti moderati, un altro 30% all'insieme di tutte le forze di centro sinistra e sinistra, e il resto dei voti alle liste indipendenti e ai reduci del partito di Ben Ali, l'Rcd, confluiti in una galassia di 47 micropartiti forti di relazioni clientelari consolidate negli anni. Eppure il voto potrebbe riservare più di una sopresa. Perchè prima ancora del Nahda, rischia di vincere il partito dell'astensionismo. Su circa 7,5 milioni di cittadini aventi diritto al voto infatti, soltanto 3,8 milioni si sono iscritti alle urne. Per gli altri sarà comunque possibile votare. Basta presentarsi al seggio con un documento valido di identità. La città di Tunisi è tappezzata di manifesti che invitano alla partecipazione e sui cellulari arrivano sms del governo che invitano a registrarsi ai seggi. Molti però hanno già deciso. Dei mille volti dei nuovi arrivati sulla scena politica tunisina non si fidano, e non andranno a votare. Mohammed e Aymen sono due di loro.

Vivono alla Marsa, sul lungomare di Tunisi. Ma con la testa sono altrove. In Italia. A attraversare il mare ci hanno già provato una volta. Ma è andata male. Sono stati rimpatriati alla fine di settembre insieme a altri 1.300 tunisini sbarcati nelle settimane precedenti. Ma non demordono. Hanno le idee chiare. Con il solo lavoro in Tunisia non si sale la scala sociale. E loro non sono disposti a aspettare vent'anni per vedere i cambiamenti della rivoluzione. Hanno 29 anni, lavorano da quando hanno abbandonato gli studi a 14 anni. E nella vita non hanno concluso niente. Ancora scapoli e con le tasche vuote. Aymen fa il panettiere da 15 anni, turni di notte, straordinari. Mohammed invece ha passato gli ultimi anni rinchiuso in una pizzeria a lavorare dalla mattina alla sera. Ed eccolo qua, in un paese dove dice di non essere mai stato felice una sola volta nella vita.

Dopo l'espulsione, entrambi sono rimasti senza lavoro. Mohammed per ora si appoggia a casa della sorella Shiddeila e del cognato Hasan. Un bilocale al secondo piano di una palazzina nella zona popolare di Marsa. Lo affittano per 80 euro al mese. Hasan guadagna 150 euro facendo il cameriere al bar di un distributore di benzina nel quartiere. Quello che avanza finisce in cibo e bollette, qualche vestito all'occorrenza, e i trasporti pubblici per andare ogni tanto a visitare la madre di Mohammed e Shiddeila a Kef.

È la vita reale di una buona metà dei cittadini tunisini. Lavorare, mangiare, dormire. I soldi precisi, i debiti che crescono. Giovani che fino a trenta o quarant'anni non riescono a sposarsi. Giovani che più delle questioni identitarie, chiedono un cambiamento reale dell'economia e della ridistribuzione della ricchezza. Loro che sono i ragazzi che hanno fatto la differenza durante la rivoluzione. Perché se non fosse stato per la massa dei ragazzi dei quartieri popolari delle grandi città e dell'entroterra più povero della Tunisia scesi in piazza, il regime non sarebbe caduto. Non è un caso che la maggior parte dei circa 300 martiri uccisi dalle forze di polizia durante la rivoluzione siano quasi tutti di estrazione popolare. Il paradosso della rivoluzione tunisina, alla vigilia delle prime elezioni libere, è proprio questo: che chi più ha pagato si sente oggi tradito da chi è sceso in politica.

Per recuperare la fiducia della gente, chiunque vincerà le elezioni dovrà affrontare i problemi reali, che nella Tunisia di oggi non sono le questioni identitarie né quelle religiose, ma quelle della giustizia sociale. E in particolare dei ceti popolari più poveri nei sobborghi delle grandi città e nelle campagne del sud. Perché i giovani in questo paese sono esausti di essere corpi inermi in uno spazio che non gli appartiene e in un tempo che non è il loro. Ardono dal desiderio di vivere e di riappropriarsi del proprio futuro. E per farlo sono pronti a morire. Emigrando in mare verso l'Europa senza passaporto, come hanno fatto in 30mila solo quest'anno. Oppure tornando in piazza, se sarà necessario, esattamente come hanno fatto un anno fa. Perché come diceva un cartello in piazza alla manifestazione del 16 ottobre: “Nella rivoluzione cedere un po' significa perdere tutto”.

(4/4, vedi puntate precedenti. Parte di questo reportage è pubblicato sul settimanale in lingua tedesca Jungle World)