13 September 2011

Rivoluzionari e razzisti? I prigionieri della medina

Il 27 agosto nella caserma di Yarmuk di Tripoli, le milizie di Gheddafi uccidono e bruciano 56 civili. Parla un sopravvissuto 


Mohamed Lajeli è un avvocato fresco di laurea in giurisprudenza e in procinto di buttarsi in politica in uno dei tanti partiti che stanno prendendo forma dalle ceneri del regime libico. È lui che ci apre le porte della palestra della vecchia medina di Tripoli. I detenuti sono seduti sul manto verde di erba sintetica del campetto di calcio, guardati a vista da ragazzi armati che si occupano della sicurezza nel quartiere. Sono una settantina di uomini arrestati nelle retate dei giorni scorsi qui alla medina. In comune hanno la pelle nera. Ma non tutti sono stranieri. Una buona metà sono libici, gli altri chadiani, nigerini e ghanesi. Facevano parte di un gruppo di più di 150 arrestati, ma più della metà sono stati rimessi in libertà per mancanza di prove. Per gli altri si continua a indagare per capire chi di loro facesse davvero parte delle milizie del regime. Di qua dalla rete di ferro che circonda il campetto di calcio, ci sono cinque o sei donne. Sono le mogli di alcuni dei detenuti. Vengono autorizzate a turno al colloquio con i mariti in stato di fermo. Parlano attraverso le maglie di ferro della rete. I bambini invece li lasciano entrare direttamente.

Abdallah Hedi Musa per esempio tiene in braccio i quattro figli, uno più piccolo dell'altro. Ha 36 anni e un viso asciutto e magro. Lo sguardo è fermo e la voce calma. Lavorava come guardiano nei cantieri di una ditta coreana a Zliten, la Shin Han. Da Zliten è partito il 15 agosto diretto nel deserto per festeggiare l'Aid (la fine del Ramadan) con i parenti. Ma quando ha scoperto che la strada per Sebha era impraticabile per via della guerra, ha deciso di fermarsi con la moglie e i bambini da un conoscente a Tripoli. Cinque giorni dopo, è iniziata la battaglia per la liberazione della capitale. E quando hanno fatto le retate nel quartiere della medina l'hanno arrestato perché nessuno del quartiere l'aveva mai visto prima. E hanno fatto bene, secondo quanto ammette lui stesso giustificando le indagini sul suo conto.

Lo fa con i toni di chi ha una dote innata per la diplomazia. “Una settimana fa a Tripoli si combatteva, c'erano milizie di mercenari, è giusto che lo Stato tuteli i suoi cittadini e faccia tutti i dovuti controlli per ripristinare la sicurezza”. Quindi attacca: “Tuttavia non è possibile che rimaniamo detenuti in queste condizioni. Dovreste subito procedere a un'inchiesta e a un processo davanti a un giudice in modo che chi come me è stato arrestato senza motivo possa essere immediatamente rimesso in libertà”.

L'avvocato Lajeli fa cenno di sì con la testa, facendomi capire che Abdallah sarà probabilmente rilasciato perché non hanno trovato niente sul suo conto. A destare più sospetti invece è il caso di Mohammed Othman Ali.

Lui si presenta come un allevatore di cammelli del Fezzan, la regione del deserto del Sahara a sud di Sebha. Ha 30 anni, anche se sembra molto più giovane, forse per quanto è magro. Lui nei guai ci si è messo da solo. Raccontando una serie di cose su cui il comitato del quartiere sta indagando. La prima cosa che non si spiega è come faccia ad avere un passaporto libico se è nato in Chad e non parla una sola parola di arabo. L'unica lingua che conosce è il tubu, che è la lingua parlata da uno dei popoli del Sahara che vive a cavallo tra il Chad, il Sudan e la Libia. Fin qui niente di strano visto che è risaputo che lungo la frontiera tra il Chad e la Libia vivono genti delle stesse famiglie, ai quali Gheddafi ha sempre riconosciuto con estrema facilità la cittadinanza libica in nome delle politiche tribaliste.

Il problema è che Abdallah ha dichiarato di essere venuto a Tripoli il 15 agosto. Cinque giorni prima della battaglia finale di Tripoli. In un periodo in cui gli unici spostamenti erano quelli dei civili in fuga dalla città e dei militari in ingresso. E quando gli chiediamo perché sia venuto a Tripoli se c'era la guerra, dice che lui della guerra non sapeva niente. Che viveva nel deserto e che non parlando l'arabo non sapeva niente di quello che stava accadendo.

Younes invece lo sapeva benissimo. Quando lo hanno arrestato non ha opposto resistenza e anche davanti alla stampa lo ripete candidamente, che sì, faceva parte delle milizie di Gheddafi. Gli avevano consegnato un kalashnikov e l'avevano nominato membro della Guardia del popolo, Hars ash-Sha'ab. È iniziato tutto un mese fa. Era di stanza al posto di blocco sulla strada dell'aeroporto. Il suo compito era controllare che chi circolava armato facesse parte dei volontari registrati presso le forze armate di Gheddafi, pena l'arresto. Tutto questo in cambio di un migliaio di dinari al mese, circa cinquecento euro. Quello che è accaduto nei giorni dei combattimenti per la liberazione della città, tra il 20 e il 24 agosto, è un mistero. Younes nega di aver preso parte alle battaglie in città e sostiene di non avere mai ucciso nessuno. Certo, viene da chiedersi come mai il regime non avrebbe dovuto fare uso di tutti i volontari delle proprie forze armate proprio nei giorni cruciali dei combattimenti. Ma di tutto questo sarà un tribunale a chiedere conto a Younes.

Davanti allo stesso tribunale finirà anche Mohammed Alaa Mohammed. Un ragazzo chadiano di 29 anni, con la cittadinanza libica. È detenuto con gli altri nel campetto di calcio, ed è uno dei pochi con il volto segnato dalle percosse. L'hanno picchiato i ragazzi che l'hanno arrestato, quando hanno visto quei video sul suo cellulare. In uno si vede una squadra delle forze armate di Gheddafi. Una decina di fuoristrada con l'antiaerea saldata sul cassone del pickup, mentre si preparano a andare a combattere al fronte. Nell'altro si vede un ragazzino adolescente a dorso nudo legato a un palo con una corda stretta sulla pancia e le mani legate dietro la schiena. Dicono che dall'accento si sente che il ragazzino è di Benghazi. I suoi torturatori gli chiedono informazioni sulle rivolte. Lui piange. Gli danno degli schiaffoni sulla testa. E alla fine gli rovesciano la benzina addosso per fargli paura. Due video così sembrerebbero incastrare definitivamente Mohamed. Che però continua a negare, nonostante le percosse.

Dice che il telefono non è il suo. Che l'ha comprato da uno sconosciuto, un libico, cinque giorni prima che lo arrestassero. E che l'ha preso perché era un'occasione, 40 dinari (20 euro) per via di quella crepa sullo schermo. Lui in Libia ci vive soltanto da due anni, prima della guerra lavorava nella raffineria di Mellitah, quella del gasdotto per Gela. Quando la raffineria ha chiuso i battenti è sceso a Sebha. Ed è risalito a Tripoli verso maggio. Dice che da allora lavorava in un bar su via Mukhtar, in pieno centro. Ma il proprietario del bar, hajj Hoseyn non sa niente del suo arresto e non è ancora venuto a scagionarlo.

Come pure non si è ancora visto il datore di lavoro di Masoud Ibrahim. Lui è uno dei due ghanesi arrestati alla medina. Classe 1982, vive in Libia da cinque anni e lavora come imbianchino. Ieri hanno picchiato anche lui. Anche lui per via di un video sul telefonino. Mostra un gruppo di africani su un fuoristrada mentre attraversano il deserto. Lui dice che si tratta del viaggio fatto cinque anni fa per venire in Libia, dal Niger. Chi lo ha arrestato invece sospetta che sia uno dei carichi di mercenari arrivati nei mesi scorsi dal Niger.

Mentre parliamo, due civili libici si avvicinano e si mettono a spergiurare che i due ghanesi siano i due cecchini che per tre giorni hanno seminato il terrore a Bu Selim. L'amico di Masoud, Kwame Evans, anche lui ghanese, 41 anni non capisce niente di quello che stanno dicendo i due. Non parla una parola d'arabo. Lui in Libia è arrivato da poco e per venire a Tripoli ha scelto il momento peggiore. Il suo errore è stato proprio quello. Aver sottovalutato la guerra ed essere salito nella capitale tre mesi fa, quando si combatteva in buona parte del paese e la città era bombardata quotidianamente dalla Nato. Oggi probabilmente si rende conto di quello che ha fatto.

È completamente nel pallone, ha le lacrime agli occhi e parla balbettando. A un certo punto si prende tra le dita i ciuffetti di capelli bianchi come se fossero una prova della sua innocenza, e ci implora di dargli un aiuto. Ma in questo momento gli unici che possono aiutarlo sono dei testimoni libici che vengano a scaglionarlo. Qualcuno che dica dove ha passato l'ultima settimana mentre in città si sparava. Esattamente come ha fatto Imad con Yousef, il maliano di Fashlum. (continua)