30 September 2011

Hanno insabbiato tutto. Prove di regime a Lampedusa

un ragazzo al sit in del 21 settembre a Lampedusa prima del pestaggio, foto Alessio Genovese


Sapevate che alcuni agenti della Guardia di Finanza a Lampedusa andavano a caccia dei tunisini indossando maglietta con su scritto “G8 2001, IO C'ERO"? E che tra i poliziotti c'era chi sotto l'uniforme indossava la maglietta con l'aquila nera e la scritta “MERCENARI”? Qualcuno penserà che siano dettagli. Secondo me invece dà la misura di dove siamo arrivati. La frontiera è ormai fuori controllo. Senza legge e senza informazione. Affidata a squadre di picchiatori esaltati. Gli stessi torturatori responsabili del macello di Genova, delle continue morti sospette in carcere e nei commissariati (vedi Cucchi, Uva, Aldrovandi...), e dei sempre più frequenti pestaggi nei centri di identificazione e espulsione (Cie). Anche se poi va detto che nei giorni della reconquista lampedusana gli agenti non erano gli unici a picchiare. Perché con le spranghe in mano c'erano anche gli operatori della "Lampedusa accoglienza". I testimoni però sono pochi. Perché i giornalisti sono stati tenuti alla larga: intimiditi e addirittura malmenati. Tanto le immagini alle redazioni le forniva direttamente la questura. A spiegarci come ha funzionato la censura in quei giorni è di nuovo Alessio Genovese, uno dei pochi fotografi che era sull'isola e che è rimasto insieme ai ragazzi tunisini fino alle violentissime cariche della polizia. Gli abbiamo chiesto di ritornare su quei fatti. La gravità di quanto accaduto lo impone. Quella che segue è la sua testimonianza.

La battaglia di Lampedusa, seconda parte

di Alessio Genovese, fotogiornalista

Lampedusa in questi giorni è stato l'esempio di cosa potrebbe accadere in Italia a breve. Abbiamo visto gli uomini della Guardia di Finanza andare in giro vestiti con delle uniformi piuttosto trendy. C'era la t-shirt con la scritta sulla manica destra "G8 2001, IO C'ERO" e quella con un particolare in più sul retro della maglietta "Mercenari". Ai giornalisti è stato vietato di svolgere correttamente il loro lavoro. Lampedusani e forze dell'ordine hanno evitato che parlassero con i circa 300 tunisini in sit in pacifico nei pressi del paese, minacciando, intimidendo e addirittura picchiando cameraman e fotografi.

Le uniche immagini che sono circolate sono passate per un doppio controllo, prima e dopo i fatti. Gli unici che hanno scattato e filmato tutto sono i poliziotti. La selezione certosina ha eliminato la parte dove si vedevano volti e modi dei picchiatori lampedusani.

Non si sono viste le scene dove c'erano uomini con l'uniforme della "Lampedusa Accoglienza" (la cooperativa che fornisce servizi all'interno del centro di accoglienza di Contrada Imbriacola) che picchiavano con mazze, ferri e pietre i tunisini.

A Lampedusa dopo le cariche del 21 settembre, abbiamo visto partire i tunisini con evidenti segni di percosse e violenze. Li abbiamo visti in fila indiana con due poliziotti che li accompagnavano verso un aereo e poi verso una nave. Nessuno però ha avuto la possibilità di chiedergli come si fossero rotti le gambe o le braccia. Tutto insabbiato, i trasferimenti sono andati avanti e anche i rimpatri. Le irregolarità e gli abusi subiti non avranno seguito.

Le redazioni dei giornali cercavano e volevano soltanto le immagini più cruente: "quelle dove i tunisini hanno caricato i lampedusani", "quella dove c'è il ragazzo con l'accendino in mano che ha tentato di fare esplodere le bombole". Immagini che non potevano esserci perché i fatti sono andati in un altro modo.

Però il compito di un giornalista dovrebbe essere quello di raccontare i fatti, parlare con la gente, andare a vedere con i propri occhi, e restare umani. Soltanto così abbiamo potuto conoscere Mehdi. Uno studente di 19 anni all'ultimo anno di scientifico.

Mehdi si fa largo tra la folla e si avvicina sorridendo e ripete un paio di volte: "choose a number, choose a number". Il giochetto fa così: scegli un numero e moltiplicalo per due. Sommalo al risultato ottenuto e dividi per due, a questo punto sottrai il numero che hai scelto all'inizio e il risultato è la metà del numero che hai scelto.

Mehdi ha un fratello che lavora e vive da anni a Legnano dove vive con la famiglia, la sorella vive da quindici anni a Nizza. Sogna di andare a stare con la sorella e potersi iscrivere alla facoltà di Matematica. E giura che se lo rimpatrieranno in Tunisia tenterà di tornare in Europa altre 100 volte. Questa è la sua battaglia.

Perché forse è vero, forse i tunisini che sbarcano a Lampedusa stanno combattendo una battaglia. Hanno deciso di affrontare il nemico a mani nude, con i loro corpi e a viso scoperto. La loro è una battaglia culturale. Abbattere una definizione, un concetto: l'idea di frontiera così per come la conosciamo noi oggi.

E i Lampedusani non è dai tunisini che si devono difendere. Roma, governo e ministero, redazioni di Tg e di giornali. Sono loro che hanno creato un clima di guerra e di paura nei confronti dell'Altro. Sono loro che hanno creato la frontiera.

Sono loro che hanno fatto di Lampedusa "l'estremo lembo dell'Italia in armi", come recita il monumento ai caduti che sovrasta il porto dell'isola. La frontiera che diventa confino, militarizzata fino ai denti. Campo di prova e di esercitazione per un'altra guerra.

Quella che verrà dopo. Quella che combatterà lo Stato contro noi italiani, i contagiati dall'allergia della primavera araba. Quelli stanchi di vivere senza prospettive per il futuro in un paese mediocre. Quelli che dal Sud vanno al Nord e da lì poi vanno all'Estero. I giovani che restano giovani fino a cinquanta anni e quelli che vivono di stage e volontariato.

Cosa succederebbe se ci lasciassero parlare con i ragazzi tunisini? Cosa accadrebbe se venissimo a capire che le nostre storie sono le loro storie? Perché hanno paura di questo?

E non hanno paura invece del rischio che si innesti una spirale di violenza contro gli italiani in Tunisia? Cosa accadrebbe se anche loro, i tunisini, cominciassero ad odiarci attaccando a vista? Le ditte, le imprese e gli italiani residenti in Tunisia, le centinaia di famiglie di origini siciliane del quartiere della Petit Sicile a la Goulette cosa staranno dicendo ai vicini di casa, colleghi e dipendenti tunisini? 
(Alessio Genovese)

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