21 May 2011

Il naufragio fantasma: almeno 320 morti a Zuwara


Sono le sette del mattino del 27 aprile 2011. E sul molo del porto di Zuwara si accalcano 600 africani, rastrellati dalle milizie di Gheddafi nei quartieri neri di Misrata, Tripoli e Sabrata e costretti a imbarcarsi per l'Italia dopo aver passato un mese reclusi in un vecchio casolare fuori Zuwara, sorvegliati a vista dai militari del regime. Kingsley è uno di loro. Sulla banchina si tiene stretto alla moglie e al bambino di tre anni. Perché le operazioni di imbarco sono veloci e violente e non vuole correre il rischio di viaggiare separato dalla moglie. Le barche infatti sono due. E non serve essere esperti marinai per capire che difficilmente raggiungeranno l'altra riva del Mediterraneo.

“Erano talmente malridotte che ci veniva da piangere al solo pensiero di partire. Ma non avevamo scelta. I militari ci costringevano a salire. Sulla prima barca montarono in 320, c'erano tantissime donne e bambini, perché li avevano fatti salire per primi. Sulla nostra barca invece eravamo un po' di meno, in 280. Siamo partiti così, loro davanti e noi dietro”.

Il tempo all'inizio è buono. I comandanti sono tunisini. I due pescherecci navigano affiancati uno all'altro, verso nord. Ma già nel primo pomeriggio la bussola si rompe. O almeno così dice il capitano. Che propone di aspettare il tramonto del sole per potersi orientare con le stelle. Ma insieme al tramonto arriva anche una brutta tempesta.

“Eravamo in mezzo alla tempesta, la barca ogni volta che andava giù sembrava sprofondare nel mare, eravamo circondati da montagne di acqua, e le onde sbattevano sul ponte. Eravamo tutti fradici e infreddoliti, al buio... Io cercavo solo di stringere forte tra le mie braccia il bambino, che non faceva altro che piangere. A un certo punto abbiamo sentito gli altri iniziare a gridare. Dicevano 'Aiuto, aiutateci! Aiutateci, aiuto! Si rompe! Si rompe si rompe si rompe! Prendeteci prendeteci! È caduto è caduto!'. Sentivamo quelle grida in mezzo all'oscurità, senza capire da dove provenissero, se fossero davanti, a destra o a sinistra. Non vedevamo niente. C'è stata una grossa discussione a bordo. Alcuni dicevano che dovevamo aiutarli. Altri facevano notare che non c'era neanche il posto per noi a bordo, dove li avremmo messi? Rischiavamo di morire tutti per andarli a salvare”.

Il capitano è tra quelli che volevano andare a prestare soccorso, ma alla fine si fa convinto a lasciarli al loro destino e con una virata si allontana dalla zona dell'incidente. Quando si alzano le prime luci dell'alba, la scena è terrificante.

“Il mare era cosparso di pezzi di plastica, sacchetti, vestiti, jilet di salvataggio. E in lontananza abbiamo visto anche dei corpi a galla ondeggiare. La barca si era spezzata e era colata a picco portandosi con sé tutti i 320 passeggeri. Nessun superstite. Eravamo terrorizzati, e per non cadere nel panico, abbiamo deciso di passarci alla larga per non vedere la scena del massacro.”

Anche perché nel frattempo ci sono stati dei morti anche sul peschereccio del nostro testimone, una decina di persone cadute in mare spazzate via da un'onda che si è schiantata sul ponte durante la tempesta. L'incubo finisce il primo maggio alle quattro di pomeriggio, quando la barca attracca a Lampedusa. Nonostante la fine del viaggio, alcune donne a bordo continuano a piangere. Perché sull'altra barca avevano i mariti. Nella foga dell'imbarco infatti i militari al porto di Zuwara non avevano perso tempo a tenere uniti i nuclei familiari. E così alcune famiglie si sono ritrovate divise tra le due navi.

Questa testimonianza spiega meglio di ogni altra analisi politica i dati al rialzo delle stragi nel Mediterraneo. Non è il mare l'unico responsabile di tanti morti. Sono soprattutto i militari libici. Perché questa volta gli sbarchi sono davvero un'operazione interamente organizzata dal regime. Che a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non ha bisogno che la merce arrivi a destinazione. Perché non c'è mercato. I passeggeri non scelgono l'intermediario più affidabile. Ma sono semplicemente rastrellati durante le retate nei quartieri neri delle città libiche e costretti a partire contro la propria volontà. La traversata è gratuita. Paga il regime. È l'ultima arma rimasta al regime libico. Le bombe umane. L'obiettivo è spedirne oltremare il maggior numero possibile, come ritorsione contro i paesi europei. La sicurezza delle traversate è un optional. Evidentemente in Libia la vita di un nero non vale granché. Neanche agli occhi del leader panafricano Gheddafi.