La notizia viene da una roccaforte dei ribelli. E la conferma si trova nei racconti di quanti stanno arrivando a Lampedusa in questi giorni. Gli sbarchi hanno un mandante. Si chiama Zuhair Adam ed è un alto ufficiale della marina libica. Al Viminale dovrebbero conoscerlo bene, visto che fa parte di un gruppo di ufficiali libici venuti in Italia all'epoca dei respingimenti per partecipare ai corsi di formazione sulle tecniche di pattugliamento. In pochi però sanno che adesso ha decisamente cambiato mestiere. In effetti non ci voleva molto a capire che in un paese in guerra la logistica per l'imbarco di migliaia di persone al giorno non potesse essere affidata al caso. Tanto più in una città militarizzata come è in questo momento Tripoli. Nessuno però avrebbe immaginato che il regime libico potesse arrivare a utilizzare i suoi uomini per gestire le partenze, e i suoi porti per favorire le operazioni.
Proprio così. I vecchi pescherecci utilizzati per abbandonare la Libia non partono più di nascosto dalle spiagge di Zuwarah, bensì da un porto nei sobborghi di Tripoli, sulla strada per Zawiyah, a 15 km dal centro storico della capitale. Si tratta della base militare di Sidi Bilal, a Janzour. I militari si occupano dell'imbarco. Mentre il reclutamento viene fatto dagli stessi intermediari che nel 2009 Gheddafi aveva sbattuto in galera dopo la firma degli accordi con l'Italia e che adesso sono stati rimessi in libertà per collaborare con il regime nella gestione delle partenze per Lampedusa.
Il nome di Zuhair mi è stato fatto la prima volta in una telefonata ricevuta da un gruppo di ribelli riparati a Nalut, la città berbera alle pendici delle montagne del Jebal Nafusa, dove da due mesi si sono rifugiati i libici passati con l'opposizione e fuggiti dal massacro di Zawiyah e dalla repressione delle milizie a Tripoli. È stato uno di loro a chiamarmi. Un contatto fidato, uno di quelli che già nel 2008, in tempi non sospetti, a Tripoli militava nell'opposizione clandestina rischiando ogni giorno la pelle. E che oggi è in contatto con elementi della marina militare vicini agli insorti. Per verificarla però, sono venuto nei centri di accoglienza in Sicilia. E appena arrivato, ho trovato 187 persone imbarcate proprio dal porto di Janzour.
Mohamed, Onyinye e Timothy sono tre di loro. Un ivoriano e due nigeriani. Tutti e tre partiti dalla base di Sidi Bilal. “L'intermediario era un ragazzo congolese – racconta Mohamed, che da Janzour è partito con la moglie – che a sua volta era in contatto con un militare di nome Ismail Jabri. Dopo una lunga contrattazione abbiamo pagato 2.500 dinari in due (circa 1.200 euro, ndr.). Quattro giorni dopo, ho ricevuto una telefonata a metà pomeriggio. Era il tassista, l'intermediario gli aveva dato il mio numero e ci aspettava sotto casa. Siamo saliti in macchina con mia moglie e ci ha accompagnati direttamente al porto di Janzour. All'ingresso c'era una sbarra e un guardiano. Hanno alzato la sbarra e ci hanno fatto entrare. Sul molo ci saranno state 400 persone e tutti i militari intorno. Non so dirti se erano della marina, delle milizie o dell'esercito, ma per certo erano delle forze armate. Inizialmente dovevamo partire a mezzanotte. Ma poi è venuto un soldato e ci ha detto che il clima era pessimo e che non potevamo partire quella notte. Abbiamo aspettato l'indomani e alle 18:00 i militari ci hanno chiamato per farci imbarcare. A chi aveva delle valigie, le hanno tolte. A me ad esempio hanno preso la borsa con tutti i documenti dentro. Potevamo tenere solo acqua e biscotti. Il giubbetto di salvataggio invece era a pagamento. Trenta dinari (15 euro, ndr). Ma io e mia moglie non avevamo più un soldo e siamo partiti senza”.
Timothy e Onyinye confermano la storia. Quel giorno era il 10 aprile. E dopo 72 ore di viaggio, la loro barca faceva naufragio a Pantelleria, complice un po' di maretta e la testardaggine del comandante che anziché seguire la guardia costiera italiana verso il porto, decideva follemente di sbarcare sugli scogli. Chinye, la moglie di Onyinye è una delle tre persone annegate in quell'incidente. Erano partiti insieme da Tripoli, dove vivevano da diversi anni, senza avere mai pensato prima di venire in Italia. Dopotutto in Libia Onyinye aveva un lavoro ben pagato. Professione imbianchino, 500 dinari al mese, circa 250 euro. Timothy guadagnava lo stesso come carpentiere nei cantieri del boom edilizio a Tripoli, e ogni mese riusciva a mandare i soldi alla famiglia a casa, come pure Mohamed che a Sebha installava impianti di climatizzazione.
Eccole le storie di chi arriva a Lampedusa in fuga dalla Libia in guerra. Lavoratori professionisti, scappati prima di ritrovarsi tra due fuochi. Accusati dai lealisti di appoggiare la rivoluzione, e dagli insorti di essere mercenari al soldo di Gheddafi. Prima se ne sono andati a decine di migliaia verso la Tunisia. Poi il regime ha capito che potevano essere una risorsa e ha colto la palla al balzo. Ha chiuso la frontiera e ha iniziato a organizzare le traversate. Da un lato è l'unica ritorsione rimasta a Gheddafi per spaventare l'Italia, dalle cui basi aeree partono gli aerei della Nato. E dall'altro è anche un ottimo affare. A 750 euro a passeggero, fanno 450.000 euro per ogni barca di 600 passeggeri. Un milione al giorno. Si paga in anticipo e i morti non vengono rimborsati. Che siano i 48 somali annegati tre giorni fa davanti a Janzour o i 300 dati per dispersi in mare dal 22 marzo scorso. Stragi dietro alle quali non si nascondono contrabbandieri senza scrupoli, ma alti ufficiali del regime libico. Che sta giocando la sua partita sulla pelle di chi cerca di lasciare il paese e mettersi in salvo.
L'ingranaggio è ben oliato e ormai il circuito funziona talmente bene che la voce è arrivata oltreconfine, nei campi profughi di Ras Jdayr, in Tunisia, dove si trovano ancora migliaia di africani. Bloccati e senza prospettive. L'Europa che pure bombarda la Libia, non ha infatti nessuna intenzione di aprire un corridoio umanitario per trasferirli dai campi. E allora in molti – soprattutto eritrei e somali - hanno iniziato a tornare in Libia e a sfidare la guerra, per poter raggiungere via mare l'Italia e chiedere finalmente asilo politico. Anche i 48 somali annegati tre giorni fa a Tripoli, arrivavano dai campi profughi della Tunisia. Il che la dice lunga sulla possibilità che la voce si sparga presto anche a sud del Sahara. Tant'è che a Roma, nei caffè della diaspora somala già si mormora che i primi gruppi di somali in Sudan si stiano organizzando per attraversare la Libia in guerra e tentare la fortuna.
Proprio così. I vecchi pescherecci utilizzati per abbandonare la Libia non partono più di nascosto dalle spiagge di Zuwarah, bensì da un porto nei sobborghi di Tripoli, sulla strada per Zawiyah, a 15 km dal centro storico della capitale. Si tratta della base militare di Sidi Bilal, a Janzour. I militari si occupano dell'imbarco. Mentre il reclutamento viene fatto dagli stessi intermediari che nel 2009 Gheddafi aveva sbattuto in galera dopo la firma degli accordi con l'Italia e che adesso sono stati rimessi in libertà per collaborare con il regime nella gestione delle partenze per Lampedusa.
Il nome di Zuhair mi è stato fatto la prima volta in una telefonata ricevuta da un gruppo di ribelli riparati a Nalut, la città berbera alle pendici delle montagne del Jebal Nafusa, dove da due mesi si sono rifugiati i libici passati con l'opposizione e fuggiti dal massacro di Zawiyah e dalla repressione delle milizie a Tripoli. È stato uno di loro a chiamarmi. Un contatto fidato, uno di quelli che già nel 2008, in tempi non sospetti, a Tripoli militava nell'opposizione clandestina rischiando ogni giorno la pelle. E che oggi è in contatto con elementi della marina militare vicini agli insorti. Per verificarla però, sono venuto nei centri di accoglienza in Sicilia. E appena arrivato, ho trovato 187 persone imbarcate proprio dal porto di Janzour.
Mohamed, Onyinye e Timothy sono tre di loro. Un ivoriano e due nigeriani. Tutti e tre partiti dalla base di Sidi Bilal. “L'intermediario era un ragazzo congolese – racconta Mohamed, che da Janzour è partito con la moglie – che a sua volta era in contatto con un militare di nome Ismail Jabri. Dopo una lunga contrattazione abbiamo pagato 2.500 dinari in due (circa 1.200 euro, ndr.). Quattro giorni dopo, ho ricevuto una telefonata a metà pomeriggio. Era il tassista, l'intermediario gli aveva dato il mio numero e ci aspettava sotto casa. Siamo saliti in macchina con mia moglie e ci ha accompagnati direttamente al porto di Janzour. All'ingresso c'era una sbarra e un guardiano. Hanno alzato la sbarra e ci hanno fatto entrare. Sul molo ci saranno state 400 persone e tutti i militari intorno. Non so dirti se erano della marina, delle milizie o dell'esercito, ma per certo erano delle forze armate. Inizialmente dovevamo partire a mezzanotte. Ma poi è venuto un soldato e ci ha detto che il clima era pessimo e che non potevamo partire quella notte. Abbiamo aspettato l'indomani e alle 18:00 i militari ci hanno chiamato per farci imbarcare. A chi aveva delle valigie, le hanno tolte. A me ad esempio hanno preso la borsa con tutti i documenti dentro. Potevamo tenere solo acqua e biscotti. Il giubbetto di salvataggio invece era a pagamento. Trenta dinari (15 euro, ndr). Ma io e mia moglie non avevamo più un soldo e siamo partiti senza”.
Timothy e Onyinye confermano la storia. Quel giorno era il 10 aprile. E dopo 72 ore di viaggio, la loro barca faceva naufragio a Pantelleria, complice un po' di maretta e la testardaggine del comandante che anziché seguire la guardia costiera italiana verso il porto, decideva follemente di sbarcare sugli scogli. Chinye, la moglie di Onyinye è una delle tre persone annegate in quell'incidente. Erano partiti insieme da Tripoli, dove vivevano da diversi anni, senza avere mai pensato prima di venire in Italia. Dopotutto in Libia Onyinye aveva un lavoro ben pagato. Professione imbianchino, 500 dinari al mese, circa 250 euro. Timothy guadagnava lo stesso come carpentiere nei cantieri del boom edilizio a Tripoli, e ogni mese riusciva a mandare i soldi alla famiglia a casa, come pure Mohamed che a Sebha installava impianti di climatizzazione.
Eccole le storie di chi arriva a Lampedusa in fuga dalla Libia in guerra. Lavoratori professionisti, scappati prima di ritrovarsi tra due fuochi. Accusati dai lealisti di appoggiare la rivoluzione, e dagli insorti di essere mercenari al soldo di Gheddafi. Prima se ne sono andati a decine di migliaia verso la Tunisia. Poi il regime ha capito che potevano essere una risorsa e ha colto la palla al balzo. Ha chiuso la frontiera e ha iniziato a organizzare le traversate. Da un lato è l'unica ritorsione rimasta a Gheddafi per spaventare l'Italia, dalle cui basi aeree partono gli aerei della Nato. E dall'altro è anche un ottimo affare. A 750 euro a passeggero, fanno 450.000 euro per ogni barca di 600 passeggeri. Un milione al giorno. Si paga in anticipo e i morti non vengono rimborsati. Che siano i 48 somali annegati tre giorni fa davanti a Janzour o i 300 dati per dispersi in mare dal 22 marzo scorso. Stragi dietro alle quali non si nascondono contrabbandieri senza scrupoli, ma alti ufficiali del regime libico. Che sta giocando la sua partita sulla pelle di chi cerca di lasciare il paese e mettersi in salvo.
L'ingranaggio è ben oliato e ormai il circuito funziona talmente bene che la voce è arrivata oltreconfine, nei campi profughi di Ras Jdayr, in Tunisia, dove si trovano ancora migliaia di africani. Bloccati e senza prospettive. L'Europa che pure bombarda la Libia, non ha infatti nessuna intenzione di aprire un corridoio umanitario per trasferirli dai campi. E allora in molti – soprattutto eritrei e somali - hanno iniziato a tornare in Libia e a sfidare la guerra, per poter raggiungere via mare l'Italia e chiedere finalmente asilo politico. Anche i 48 somali annegati tre giorni fa a Tripoli, arrivavano dai campi profughi della Tunisia. Il che la dice lunga sulla possibilità che la voce si sparga presto anche a sud del Sahara. Tant'è che a Roma, nei caffè della diaspora somala già si mormora che i primi gruppi di somali in Sudan si stiano organizzando per attraversare la Libia in guerra e tentare la fortuna.