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Lui l'Italia se l'immaginava diversa, migliore. É partito dalla Tunisia due anni e otto mesi fa. All'epoca c'era ancora la dittatura di Ben Ali. “Non sono partito per i soldi, ma per la libertà. Avevo un lavoro, ma nella vita la libertà è più cara di tutto, è più cara anche dei soldi. E in Tunisia non eri libero di gridare quello che pensavi. Ho attraversato il mare, pensavo di trovare la democrazia in Italia e invece è peggio che da noi. Guarda come siamo finiti!”.
Ormai V. ha passato cinque mesi dentro il “ferro”. Ed è abbastanza sicuro che non lo rimpatrieranno. “Da quando sono qua, non hanno rimpatriato nessuno di noi”. Presto sarà finalmente di nuovo un uomo libero. Anche se fino a adesso non ha la più pallida idea di dove andare. “Non riesco più a pensare. Sei mesi della mia vita rinchiuso qua dentro, ti rendi conto? Sei mesi buttati via della mia vita... Il mio cervello si è spento. Il ferro, la polizia, non riesco più a pensare a niente. Quando uscirò, vedremo. Ho degli amici, li chiamerò, magari per farmi ospitare i primi giorni, poi cerco un lavoretto. Dipende tutto dalla fortuna”.
E dalla fortuna dipenderà anche non farsi riacciuffare dalla polizia. Come funziona lo sappiamo bene ormai. Esci dal Cie, non sai dove andare, ti trovi in mezzo a una strada, e magari una settimana dopo ti ferma di nuovo la polizia e ti chiede di nuovo i documenti. E tutto comincia da capo. Di nuovo il Cie, di nuovo sei mesi buttati via. E una fabbrica che oltre a generare clandestinità e consenso elettorale, genera anche e soprattutto emarginazione e esclusione sociale.
"V." è l´iniziale di un nome inventato. Finché la persona in questione non uscirà dal Cie preferiamo mantenere il suo anonimato per sicurezza