04 April 2011

Tra due fuochi. Gli stranieri in Libia al tempo della rivoluzione


Viaggio a Misratah, 2 aprile 2011

Nashat non ha fatto in tempo a fare le valigie quando è scappato. E dietro si è portato soltanto la foto dei figli. Mi chiede di farla vedere in televisione perché la famiglia a Banisuif in Egitto sappia che è ancora vivo. Accanto a lui si crea una calca di gente. Sono tutti egiziani e sono migliaia. La distesa delle tende grige allestite dalla croce rossa libica per accoglierli si perde all'orizzonte lungo tutto il viale che dall'acciaieria conduce fino al porto industriale di Misratah. Vogliono tutti che mi segni il loro nome e gli faccia una foto. Sono il primo giornalista che incontrano da quando tre settimane fa hanno abbandonato le loro case in città per rifugiarsi qui in attesa che il governo egiziano mandi loro una nave a portarli via dalla guerra. Le truppe di Gheddafi hanno tagliato le linee telefoniche della città. E da allora non hanno più contatti telefonici con i parenti in Egitto, che seguono con ansia su Al Jazeera le notizie dei bombardamenti sui civili sperando che i propri cari siano ancora vivi.

Le bombe sono arrivate anche qui. Per tre giorni consecutivi. Mercoledì, giovedì e venerdì scorso, l'artiglieria pesante delle milizie governative ha colpito il porto della città. Forse per bloccare l'attracco della nave ospedale turca che da tre giorni aspettava in rada con un carico di medicinali per la città e che alla fine ha invertito rotta perché troppo pericoloso. O forse invece per colpire noi giornalisti. Io, Stefano Liberti del Manifesto, Alfredo Bini dell'agenzia fotografica Cosmos, due inviati della Afp e una troupe della Cnn, arrivati proprio via mare con un peschereccio carico di aiuti umanitari che è stato ripetutamente bersagliato dai razzi. Gli ultimi sono caduti poche decine di metri oltre il muro di cinta che separa il campo degli sfollati dal porto. Qualche metro prima e avrebbero fatto una strage. Sì perché sotto le tende sono più di cinquemila persone. Le stime ce le forniscono i volontari della croce rossa libica, che hanno allestito il campo e gestiscono la distribuzione quotidiana di acqua potabile, pane e scatolette di tonno. Quattromila egiziani, 400 bangladeshi e un migliaio tra nigerini, sudanesi, ghanesi, chadiani, nigeriani e eritrei.

Da questo porto era partito il traghetto Mistral con i 1.800 marocchini a bordo, respinto da Malta e dall'Italia lo scorso 15 marzo. Altri 2.300 egiziani sono stati evacuati il sette marzo su una nave giunta a Alessandria d'Egitto. Per evacuare tutti gli altri basterebbero altre tre navi di quella grandezza. Una sciocchezza per i governi e per le agenzie umanitarie. Eppure nessuno per il momento sembra essere interessato a fare qualcosa. Sotto le tende non si parla d'altro. Tornare a casa, scappare dalla guerra. Sono tutti lavoratori, gente come Taha, che mi accompagna a visitare le famiglie e mi fa da interprete con il suo accento friulano. L'italiano l'ha studiato all'università del Cairo, e l'accento l'ha preso a Misratah dopo due anni di lavoro con la Siderimpes di Gorizia.

Aspettano la nave che li porterà in salvo e giurano che per niente al mondo torneranno in città. A fargli paura sono le truppe di Gheddafi. Perché molti ragazzi egiziani a Misratah hanno solidarizzato con la rivoluzione dei giovani. L'avevo già visto a Benghazi, con i convogli di aiuti umanitari che arrivavano dall'Egitto. E con gli egiziani in piazza con la bandiera libica e quella del proprio paese. Ragazzi che in Libia ci sono arrivati da piccoli o che addirittura ci sono nati. Ragazzi come Mustafa Yasir, siriano, nato a cresciuto a Misratah e oggi ricoverato all'ospedale Hikma in attesa dell'operazione che gli amputerà le due gambe, maciullate da una granata sparatagli contro da un carro armato mentre con un vecchio kalashnikov cercava di difendere la sua città. Scappano anche per questo gli egiziani, per paura che se le forze di Gheddafi riprenderanno il controllo della città, per loro sarà una strage.

I sudanesi e i chadiani invece, scappano per il motivo opposto. A loro a fare paura sono i ribelli. Qua dentro sono al sicuro. I ragazzi della rivoluzione gli provvedono acqua e cibo ogni giorno, nonostante la città sia sotto embargo e i beni di prima necessità scarseggino anche per le famiglie libiche. Ma appena fuori dal perimetro dell'acciaieria rischiano il linciaggio se scambiati per errore per gli uomini di Gheddafi. Ormai non è più un segreto che il colonnello abbia schierato un'armata di mercenari per distruggere Misratah. I ragazzi della rivoluzione li hanno catturati con ancora la mimetica addosso e in tasca i passaporti mauritani, nigerini, chadiani e maliani. E li hanno ammazzati sul posto. Sgozzati con una coltellata, come i peggiori degli animali.

I video circolano sui telefonini dei ragazzi che li hanno ripresi ormai cadaveri ammucchiati sui pickup che li portavano via dalla città. La spirale della violenza in città ormai è tale, che nessuno si scandalizza nemmeno di questo. Gli avvocati del consiglio transitorio hanno un bel dire che i mercenari vanno arrestati e sottoposti a un regolare processo. In strada i ragazzi hanno visto versare troppo sangue innocente per mantenere i nervi saldi e il sangue freddo. E per un nero africano oggi a Misratah può bastare trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato per essere scambiato per un mercenario in borghese che si dà alla fuga.

Ad ogni modo, egiziani o sudanesi, questa non è la loro guerra. E dalla Libia vogliono solo andare via. Come hanno già fatto centinaia di migliaia di tunisini, egiziani, cinesi e bangladeshi. E come hanno fatto decine di migliaia di sudanesi, chadiani e nigerini rientrati nei propri paesi via terra, percorrendo la rotta del Sahara a ritroso, verso sud. Ma di stranieri bloccati in Libia ce ne sono ancora a migliaia. E non soltanto nel porto di Misratah. Ce ne sono a Tripoli, da dove infatti stanno ricominciando le traversate per Lampedusa. E ce ne sono a Sallum, al valico della frontiera egiziana.

Ci siamo passati la settimana scorsa a Sallum, durante il viaggio da Benghazi a Misratah. E abbiamo visto un migliaio di ciadiani e un centinaio di eritrei accampati intorno alla dogana egiziana, senza il permesso di andare al Cairo e senza l'assistenza delle proprie ambasciate per tornarsene a casa. Dormono a terra sui cartoni con una coperta tirata fin sopra la testa per ripararsi dal freddo delle notti di primavera del Mediterraneo.

Outhman è uno di loro. Viene da Benghazi, dove ha vissuto per sette anni e dove non ha nessuna intenzione di tornare. Ha trent'anni e tre figli. Dalla Libia ha portato via tutta la famiglia. I bambini dormono con la moglie nel piazzale delle donne. Lavorava in un allevamento di polli. Lo stipendio era buono, 500 dinari al mese. E la vita non male anche perché i ciadiani parlano arabo ed è facile integrarsi. I guai secondo lui sono iniziati con la rivoluzione. A Benghazi la gente è diventata violenta, dice. Li hanno cacciati i ragazzini per strada dicendo che in Libia non vogliono più vedere dei neri. Per quello dice che con la Libia hanno chiuso. Fosse anche tra vent'anni, non vogliono più metterci piede. Anche perché loro ai ribelli preferiscono di gran lunga la dittatura di Gheddafi. E non si vergognano a dirlo.

Il colonnello dopotutto è quello che ha aperto loro le porte. È l'unico che per un decennio ha tentato una politica panafricana, quando la comunità internazionale lo condannava all'embargo. E ha investito valanghe di soldi a sud del Sahara, finanziando allo stesso tempo grandi opere e movimenti armati che in quarant'anni hanno seminato il terrore in mezzo continente. E d è stato lo stesso Gheddafi a aprire la frontiera ai fratelli africani e a invitarli a andare in Libia a lavorare e a cercare fortuna, salvo poi affidarli alla propria polizia non appena l'Europa ha tolto l'embargo e ha iniziato a investire soldi veri in Libia.

Ma al di là delle opinioni dei ciadiani di Sallum su Gheddafi, resta un punto interrogativo sull'immigrazione nella Libia di domani. I lavoratori africani torneranno oppure no? E se non torneranno, chi li sostituirà? Sono domande fondamentali anche queste per capire cosa accadrà in un paese dove il 25% della popolazione prima della rivoluzione era costituita da lavoratori stranieri. Che con la guerra si sono ritrovati in mezzo a due fuochi. E che a pace fatta dovranno decidere se ritornare o tagliare per sempre i ponti con la Libia.