Viaggio a Benghazi, 16 marzo 2011
Notte di fuoco a Benghazi. Dopo la disfatta degli insorti a Ijdabiyah sotto gli incessanti bombardamenti dell'aviazione di Gheddafi, martedì sera la contraerea ha sparato per ore in pieno centro della città. E il cielo è stato illuminato a giorno dai traccianti, mentre in prossimità del porto sono stati esplosi anche candelotti di dinamite. Stavolta però nei paraggi non c'era nessun obiettivo del nemico. E ogni colpo sparato era una liberazione di gioia. Proprio così, per quanto assurdo possa sembrare, Benghazi ha fatto le ore piccole celebrando la vittoria che non c'è. Un vero e proprio delirio collettivo basato su una serie di notizie non ancora confermate secondo cui l'armata della rivoluzione adesso conterebbe su tre aerei che avrebbero affondato due navi militari e bombardato l'aeroporto di Sirte e le retrovie delle divisioni di Gheddafi a Ijdabiya, riconquistando la città. Mentre un quarto aereo si sarebbe addirittura schiantato dentro la caserma di Bab el Aziziya, il quartier generale di Gheddafi a Tripoli. Tutte notizie impossibili da verificare al momento, ma che hanno riportato l'entusiasmo in una piazza che fino a poche ore prima era terrorizzata al pensiero dell'assedio di Benghazi. Qualcuno però non ha capito che era tutto uno scherzo. E quando ha sentito la contraerea in azione per tutta la notte, si è spaventato a morte. Sono gli eritrei, gli etiopi e i somali respinti dall'Italia e finiti in mezzo alla guerra.
Abdrazaq è uno di loro. Ha 25 anni e viene dall'Etiopia. Stanotte non ha chiuso occhio e insiste perché vada nella sua stanza a vedere il buco fatto dal bossolo di un proiettile sul soffitto del prefabbricato dove vive da due settimane, qui nel cantiere della Shaaporji Pallonji, la ditta indiana a cui hanno appaltato la costruzione della torre Fatah vicino allo stadio della città. Con lui vivono i 183 africani non ancora evacuati dalla città. Per l'esattezza 60 eritrei, 48 somali, 73 etiopi, una nigeriana e un nigerino. Sono quelli che restano dei duemila africani che durante i primi giorni della rivoluzione si erano rifugiati al porto di Benghazi, sperando di trovare un posto sulle navi in partenza per Creta, in Grecia, e per Alessandria d'Egitto, terrorizzati dalla violenza in città e dalla caccia al nero scatenata dopo la fuga dei mercenari africani delle milizie di Gheddafi e spaventati dalle voci sull'arresto di africani innocenti scambiati per i mercenari solo perché neri.
Chadiani, sudanesi e nigeriani sono stati trasferiti a Sallum, alla frontiera egiziana. Nel centro di accoglienza allestito dalla Crescente rossa sono rimasti soltanto etiopi, somali e eritrei. Sono uomini, donne e bambini. Piuttosto che ritrovarsi in mezzo a una guerra preferirebbero tornare a casa, come hanno fatto nelle settimane scorse i circa 250.000 tra egiziani, tunisini, nigeriani, ghanesi, cinesi, bangladeshi che hanno lasciato la Libia. Ma vengono da paesi a loro volta in guerra, la Somalia, o sotto regimi dittatoriali, l'Eritrea e l'Etiopia. Ecco perché di andare in Egitto non vogliono nemmeno sentirne parlare. Gli etiopi in Libia dal 2006 non hanno più nemmeno l'ambasciata. E temono che arrivati al varco Sallum si trovino davanti i funzionari dell'ambasciata al Cairo pronti a rimpatriarli. E allora l'unica soluzione che vedono è l'Europa. E magari l'Italia, dove molti di loro hanno amici e parenti. Dove molti di loro hanno tentato di arrivare via mare negli anni passati, imbarcandosi proprio dalla Libia. E da dove alcuni di loro sono pure stati respinti.
Proprio così, ci sono anche dei respinti tra i 182 africani del centro di accoglienza di Benghazi. Fuad Kamel è uno di loro. Anche lui viene dall'Etiopia, è Oromo e ha da poco compiuto 19 anni. Ci racconta di essere stato respinto dall'Italia nel luglio del 2009, su una barca con una sessantina di passeggeri a bordo, eritrei, somali e nigeriani. Di quella barca qui al campo riusciamo a parlare con altre tre persone, compreso il capitano, un somalo. Dicono che gli italiani li presero a bordo su una motovedetta grigia per poi trasbordarli su una motovedetta libica. La data esatta nessuno la ricorda, ed è facile credergli visto che una volta portati a terra hanno passato molti mesi in carcere in condizioni terribili. Alcuni un anno. Chi a Garabulli, chi a Twaisha, chi a Misratah. Per poi riuscire a tornare in libertà corrompendo la polizia.
In tutto il campo i respinti dopo l'accordo del 2009 non sono più di una decina. Ma quasi tutti gli altri hanno subito almeno un respingimento. Abderazaq per esempio ha tentato tre volte la traversata del mare e nell'estate del 2007 è stato respinto dagli italiani. Dopotutto non è un mistero che i respingimenti si facevano anche prima, soltanto non in modo sistematico. Quel respingimento gli è costato un anno di detenzione in un carcere di Tripoli, a Twaisha. Anche Fazi si è fatto un anno di carcere, ma a Misratah, beccato dai libici mentre prendevano il largo. Per uscire ha dovuto pagare mille euro una guardia. Da quando è tornato in libertà si è trasferito a Benghazi. Qui non è come a Tripoli. Lo dicono tutti. Job per esempio prima che scoppiasse la rivoluzione faceva l'imbianchino per una compagnia libica, lo stipendio era buono, 600 dinari al mese, praticamente 300 euro. La vita qui è più economica che nella capitale e la gente meno razzista. Niente a che vedere insomma con i quartieracci di Tripoli. Posti come Abu Selim, Gurgi, Tajura e Jamaa el Ghazi, dove per una rapina rischi di essere accoltellato, dicono.
Forse è per quello che alla fine a Benghazi si era ricreata una comunità. Sono tutti ragazzi di Kirkos, un quartiere di Addis Abeba, in buona parte Oromo. Qui vivono da anni e hanno messo su famiglia. Abderazaq a Benghazi ci sta da tre anni, e nel frattempo si è sposato. Sua moglie sta qui al campo con lui e con Zamzam, il bambino di un anno. Fazi anche si è trasferito qui con la moglie e i due bambini, uno di 5 anni e l'altro di 8 mesi. Nessuno di loro sa cosa fare. Ci chiedono consigli. Vogliono notizie sul fronte e sulla possibilità di una loro evacuazione in Europa.
Una delle donne, Alam, è in contatto telefonico con un prete eritreo a Roma, sa che la chiesa di Tripoli ha mediato il trasferimento in Italia di due gruppi di 58 eritrei, l'8 e il 14 marzo, e vuole sapere se anche per loro ci sarà una possibilità. Lei vive a Benghazi da 10 anni, lavora come domestica per 30 dinari al giorno, 15 euro. E non ha nessuna intenzione di attraversare il mare perché, dice, è troppo pericoloso. Habtemnesh invece risponde con un sorriso. È una ragazza di 20 anni, viene da Asmara, ed è arrivata a Benghazi quando aveva soltanto 17 anni. Dice che nella vita ha un sogno, sa che prima o poi si avvererà, ma per scaramanzia lo tiene segreto. Anche perché con la guerra alle porte nessuno sa che cosa sarà di loro
Abdrazaq è uno di loro. Ha 25 anni e viene dall'Etiopia. Stanotte non ha chiuso occhio e insiste perché vada nella sua stanza a vedere il buco fatto dal bossolo di un proiettile sul soffitto del prefabbricato dove vive da due settimane, qui nel cantiere della Shaaporji Pallonji, la ditta indiana a cui hanno appaltato la costruzione della torre Fatah vicino allo stadio della città. Con lui vivono i 183 africani non ancora evacuati dalla città. Per l'esattezza 60 eritrei, 48 somali, 73 etiopi, una nigeriana e un nigerino. Sono quelli che restano dei duemila africani che durante i primi giorni della rivoluzione si erano rifugiati al porto di Benghazi, sperando di trovare un posto sulle navi in partenza per Creta, in Grecia, e per Alessandria d'Egitto, terrorizzati dalla violenza in città e dalla caccia al nero scatenata dopo la fuga dei mercenari africani delle milizie di Gheddafi e spaventati dalle voci sull'arresto di africani innocenti scambiati per i mercenari solo perché neri.
Chadiani, sudanesi e nigeriani sono stati trasferiti a Sallum, alla frontiera egiziana. Nel centro di accoglienza allestito dalla Crescente rossa sono rimasti soltanto etiopi, somali e eritrei. Sono uomini, donne e bambini. Piuttosto che ritrovarsi in mezzo a una guerra preferirebbero tornare a casa, come hanno fatto nelle settimane scorse i circa 250.000 tra egiziani, tunisini, nigeriani, ghanesi, cinesi, bangladeshi che hanno lasciato la Libia. Ma vengono da paesi a loro volta in guerra, la Somalia, o sotto regimi dittatoriali, l'Eritrea e l'Etiopia. Ecco perché di andare in Egitto non vogliono nemmeno sentirne parlare. Gli etiopi in Libia dal 2006 non hanno più nemmeno l'ambasciata. E temono che arrivati al varco Sallum si trovino davanti i funzionari dell'ambasciata al Cairo pronti a rimpatriarli. E allora l'unica soluzione che vedono è l'Europa. E magari l'Italia, dove molti di loro hanno amici e parenti. Dove molti di loro hanno tentato di arrivare via mare negli anni passati, imbarcandosi proprio dalla Libia. E da dove alcuni di loro sono pure stati respinti.
Proprio così, ci sono anche dei respinti tra i 182 africani del centro di accoglienza di Benghazi. Fuad Kamel è uno di loro. Anche lui viene dall'Etiopia, è Oromo e ha da poco compiuto 19 anni. Ci racconta di essere stato respinto dall'Italia nel luglio del 2009, su una barca con una sessantina di passeggeri a bordo, eritrei, somali e nigeriani. Di quella barca qui al campo riusciamo a parlare con altre tre persone, compreso il capitano, un somalo. Dicono che gli italiani li presero a bordo su una motovedetta grigia per poi trasbordarli su una motovedetta libica. La data esatta nessuno la ricorda, ed è facile credergli visto che una volta portati a terra hanno passato molti mesi in carcere in condizioni terribili. Alcuni un anno. Chi a Garabulli, chi a Twaisha, chi a Misratah. Per poi riuscire a tornare in libertà corrompendo la polizia.
In tutto il campo i respinti dopo l'accordo del 2009 non sono più di una decina. Ma quasi tutti gli altri hanno subito almeno un respingimento. Abderazaq per esempio ha tentato tre volte la traversata del mare e nell'estate del 2007 è stato respinto dagli italiani. Dopotutto non è un mistero che i respingimenti si facevano anche prima, soltanto non in modo sistematico. Quel respingimento gli è costato un anno di detenzione in un carcere di Tripoli, a Twaisha. Anche Fazi si è fatto un anno di carcere, ma a Misratah, beccato dai libici mentre prendevano il largo. Per uscire ha dovuto pagare mille euro una guardia. Da quando è tornato in libertà si è trasferito a Benghazi. Qui non è come a Tripoli. Lo dicono tutti. Job per esempio prima che scoppiasse la rivoluzione faceva l'imbianchino per una compagnia libica, lo stipendio era buono, 600 dinari al mese, praticamente 300 euro. La vita qui è più economica che nella capitale e la gente meno razzista. Niente a che vedere insomma con i quartieracci di Tripoli. Posti come Abu Selim, Gurgi, Tajura e Jamaa el Ghazi, dove per una rapina rischi di essere accoltellato, dicono.
Forse è per quello che alla fine a Benghazi si era ricreata una comunità. Sono tutti ragazzi di Kirkos, un quartiere di Addis Abeba, in buona parte Oromo. Qui vivono da anni e hanno messo su famiglia. Abderazaq a Benghazi ci sta da tre anni, e nel frattempo si è sposato. Sua moglie sta qui al campo con lui e con Zamzam, il bambino di un anno. Fazi anche si è trasferito qui con la moglie e i due bambini, uno di 5 anni e l'altro di 8 mesi. Nessuno di loro sa cosa fare. Ci chiedono consigli. Vogliono notizie sul fronte e sulla possibilità di una loro evacuazione in Europa.
Una delle donne, Alam, è in contatto telefonico con un prete eritreo a Roma, sa che la chiesa di Tripoli ha mediato il trasferimento in Italia di due gruppi di 58 eritrei, l'8 e il 14 marzo, e vuole sapere se anche per loro ci sarà una possibilità. Lei vive a Benghazi da 10 anni, lavora come domestica per 30 dinari al giorno, 15 euro. E non ha nessuna intenzione di attraversare il mare perché, dice, è troppo pericoloso. Habtemnesh invece risponde con un sorriso. È una ragazza di 20 anni, viene da Asmara, ed è arrivata a Benghazi quando aveva soltanto 17 anni. Dice che nella vita ha un sogno, sa che prima o poi si avvererà, ma per scaramanzia lo tiene segreto. Anche perché con la guerra alle porte nessuno sa che cosa sarà di loro