22 March 2011

One two tre merci Sarkozé


Viaggio a Benghazi, 21 marzo 2011

“No all'ingresso degli stranieri”. È scritto di rosso su uno sfondo bianco con su disegnata una montagna di teschi neri sorvolata da un elicottero da guerra. È il manifesto più grande sotto il tribunale di Benghazi. Oggi in piazza sono in migliaia e l'hanno sistemato bene in vista, perché finisca dentro l'inquadratura del cameraman di Al Jazeera, che dal terrazzo del palazzo di fronte filma i manifestanti il giorno dopo il bombardamento degli alleati. I manifestanti non vogliono l'occupazione militare, sanno bene cos'è diventato l'Iraq. Quegli stessi manifestanti però nella stessa piazza sventolano la bandiera francese cantando a squarciagola slogan sgrammaticati tipo: “One two tre, merci Sarkozé!” oppure “Shukran marra thania lil Faransa wal Britania!”. Ovvero “Un due tre, grazie Sarkozy”, e “Grazie due volte alla Francia e all'Inghilterra”. E tra la folla c'è addirittura qualcuno che pronuncia frasi impensabili fino a pochi giorni fa, del tipo: “Ringraziamo dio e gli Stati Uniti d'America!”. Forse non piacerà ai tanti che in Italia credono giustamente alla cultura della pace e che quindi si oppongono per principio all'uso della guerra come strumento per la controversia dei conflitti internazionali. Ma queste sono le parole della piazza di Benghazi, e che ci piacciano o meno, vanno raccontate. Per capire da dove nasca questo improvviso amore per Francia, America e Gran Bretagna, basta fare una gita fuori porta.

Ci accompagna Gheif sul suo fuoristrada. Parla un ottimo inglese, è tornato a Benghazi da quattro mesi, dopo il suo master in business all'università di Manchester. La località dove ci porta si chiama Jarrutha e si trova a una ventina di chilometri dal centro. È qui che hanno bombardato i francesi la notte di sabato e la mattina di domenica. La strada è paralizzata dal traffico. Centinaia di ragazzi di Benghazi sono venuti a vedere i carri armati colpiti dai missili per farsi una foto e portare a casa qualche ricordo di guerra. Quando riusciamo a farci largo tra la gente, vediamo davanti a noi un paesaggio surreale. Il fumo si leva ancora da quel che resta delle gomme dei camion. I carri armati sono aperti in due. E dei camion delle munizioni non resta che il telaio attorcigliato su se stesso dalla botta dei missili. Altrove invece le macchine e i camion sono soltanto bruciati, come da una nube di calore, ma senza segni evidenti di esplosione, né sui mezzi né sul terreno agricolo intorno, dove l'erba è ancora verde. Lungo un'area di pochi chilometri, contiamo 26 carri armati, sette camion lanciamissili Grad, due pickup lanciarazzi, 19 camion, una batteria antiaerea, tre autocisterne, cinque autobus, 45 macchine, e un lanciamissili attrezzato di radar. Tutti esplosi e ridotti in cenere dalle fiamme.

Sono soltanto una parte dell'artiglieria pesante che Gheddafi aveva spedito per riprendere il controllo della città di Benghazi. Fonti vicine agli ambienti militari del consiglio transitorio degli insorti parlano di una colonna di 40 carri armati e 60 camion lanciamissili Grad. E gli abitanti di Qimenes, 50 km a sud di dove hanno colpito i francesi, confermano di aver assistito alla fuga di un'imponente colonna di blindati subito dopo il bombardamento di domenica mattina.

La domanda della gente è una sola: “E se fossero entrati a Benghazi?”. Sì perché erano questi i rinforzi destinati a stanare “i ratti” della rivoluzione, “casa per casa”, “vicolo per vicolo”, “senza pietà”, come gridava da giorni infuriato in televisione il colonnello Gheddafi. A sfondare le inconsistenti linee difensive dei ragazzi ci avevano provato già sabato scorso. Una battaglia urbana devastante, durata tutta la mattina e costata la vita a almeno 94 ragazzi dell'armata popolare. I segni di quella battaglia sono ancora scritti sulle facciate dei palazzi che affacciano su Sharaa Tarabulus, la strada che porta a Tripoli. I muri sono crivellati di colpi e le pareti sfondate dalle granate.

Con il senno di poi, la strategia di Gheddafi era facilmente intuibile. Giocare di forza opponendo l'artiglieria pesante all'agilità dei due o tremila ragazzi dell'armata popolare. Una volta portati i carri armati e i lanciamissili in città infatti, l'aviazione francese non avrebbe potuto bombardarli, perché troppo vicini ai centri abitati. E gli squadristi dei Lijan thauriya avrebbero potuto seminare il terrore. La prima fase del piano è stata bloccata dal bombardamento. La seconda invece sembra essere andata comunque in porto. Almeno a giudicare dalle sparatorie che abbiamo sentito nelle ultime due notti in pieno centro.

Si muovono quando fa buio, arrivano in macchina a tutta velocità e sparano qualsiasi cosa si muova. Sono gli squadristi delle falangi di Gheddafi. In arabo si chiamano Lijan thauriya, che tradotto in italiano suona tipo i comitati rivoluzionari, ma che di fatto sono corpi speciali di polizia segreta che dai tempi delle riforme del 1977, con l'istituzione del governo delle masse, la Giamahiriya, sono stati incaricati prima di terrorizzare e reprimere gli oppositori, quindi di controllare il paese e di conseguenza ricoprire i ruoli che contano nei gangli del potere.

Secondo fonti bene informate, nella sola città di Benghazi potrebbero contare su almeno mille persone. Le loro caserme sono state tutte distrutte e date alle fiamme dai ragazzi del movimento del 17 febbraio. Inizialmente il consiglio transitorio aveva lanciato un appello via radio in nome della riconciliazione e della pace, offrendo loro l'amnistia in cambio della dissociazione dal regime di Gheddafi. Ma da quando i Lijan thauriya sono tornati in forze e hanno iniziato a sparare sui ragazzi della rivoluzione, ad esempio durante la battaglia di sabato scorso contro le milizie di Gheddafi, il consiglio ha deciso per le maniere forti. E allora oggi hanno lanciato loro un ultimatum.

Chi non consegnerà le armi entro le prossime 24 ore sarà tratto in arresto. E insieme a loro, prima o poi, sarà arrestato anche Gheddafi. Questa è la speranza di tutti. Nessuna negoziazione. Lo ha detto in conferenza stampa anche il portavoce del consiglio nazionale transitorio, Abdelhafid Ghoga: “Con Gheddafi non si discute. Deve essere processato per ogni singola goccia del sangue che ha versato. Per rispetto dei martiri della rivoluzione, ma anche per tutti i martiri degli anni Ottanta e Novanta”.


Mentre pubblico questi pezzi, in Italia si manifesta contro la guerra in Libia, nel nome della cultura della pace. Non prendetemi per un interventista, perché non lo sono, ma il mio lavoro è raccontare quello che vedo, anche quando è diverso da quello che vorrei vedere. E la piazza di Benghazi usa parole diverse da quelle dei pacifisti italiani. Dove stia la verità non lo so. E probabilmente sono troppo vicino ai morti di Benghazi per saperlo. Ma ascoltare questa piazza credo serva a tutti, anche a chi ritiene inamovibili le proprie posizioni. 
Chiediamoci seriamente cosa possiamo fare, al di là del no alla guerra. 
Ieri a Misratah, con la città sotto assedio, la popolazione è scesa in piazza per una manifestazione. Gli hanno sparato addosso i miliziani di Gheddafi. Quaranta morti, 180 feriti e una città allo stremo, senza acqua e elettricità da una settimana. 
Di nuovo, chiediamoci seriamente cosa possiamo fare in queste ore. 
La Francia ha venduto armi a Gheddafi fino all'altro ieri? L'Italia era il migliore alleato della dittatura? Gli Stati Uniti lavoravano da anni per riabilitare a livello internazionale il colonnello in cambio di buoni affari? Sì, è tutto vero. Come è vero che agli alleati non interessano i diritti umani, altrimenti sarebbero intervenuti prima usando le vie diplomatiche, ma soltanto la protezione dei propri interessi in Libia. Un paese evidentemente troppo ricco per essere abbandonato nel caos per anni. 
Siamo tutti d'accordo su queste analisi. Ma torniamo ai ragazzi di Benghazi, ai ragazzi di Misratah, di Zawiyah, di Zintan, di Ijdabiya. 
E chiediamoci seriamente cosa possiamo fare in queste ore. Lo dobbiamo al coraggio di questa gente.