13 March 2011

La carica dei volontari


Viaggio a Benghazi, domenica 13 marzo 2011

La signora Dhahiba è tornata in piazza anche oggi per chiedere l'istituzione di una No Fly Zone. Lei lavora come impiegata in una compagnia petrolifera di Benghazi, la Oil Ageco. Ma è per il figlio che è venuta a manifestare. Si chiama Aytam, ha 20 anni e non lo vede da tre giorni. È partito venerdì per il fronte, insieme agli altri “volontari”, così li chiamano. Arrivano a Benghazi ogni giorno, da tutte le città della Cirenaica, per arruolarsi e difendere la popolazione dalla violenta repressione scatenata dalla famiglia Gheddafi. Funziona che chi ha un'arma e sa usarla va direttamente al fronte in macchina, per gli altri c'è una specie di centro di addestramento in città, dove imparare i rudimenti delle armi da fuoco. La formazione si tiene nella vecchia caserma detta del “7 aprile”, ribattezzata “base dei martiri” dall'inizio della rivoluzione.

Ci dà un passaggio in auto Abdelhamid, un tassista di 23 anni, tornato ieri dal fronte dopo una settimana di combattimenti. Lui è uno di quelli che un fucile in mano non l’aveva mai preso. Il suo addestramento, se così si può chiamare, è durato tre mattine. Dal fronte è tornato con pessime notizie. Ieri nella battaglia che ha consegnato i pozzi petroliferi di Ras Lanuf alle milizie di Gheddafi sono morti almeno 6 volontari delle truppe della rivoluzione, e un’altra cinquantina sono rimasti feriti sotto il fuoco nemico. Mentre oggi, a distanza di 24 ore è arrivata anche la disfatta di Brega. Il fronte è ormai è a poco più di 150 km da qui. Ma a giudicare dal morale dei ragazzi, la partita è ancora aperta. Dopotutto qualcuno l'ha scritto anche su un manifesto sotto la piazza del tribunale: “Chi rende impossibile una rivoluzione pacifica, rende inevitabile una rivoluzione violenta”.

E infatti questa non è la gioventù delle armi e della guerra. Accanto ai ragazzi partiti al fronte per difendere la propria gente dalle incursioni militari di Gheddafi, che già hanno fatto centinaia di morti dall'inizio della rivoluzione lo scorso 15 febbraio, ci sono i ragazzi della piazza, che ogni giorno riempiono le strade di Benghazi e che ogni notte presidiano fino all'alba la piazza del tribunale, e poi ci sono i ragazzi che organizzano la solidarietà popolare. Una solidarietà che ormai non ha più confini.

Nader ad esempio è arrivato da Alexandria, dove lavora in una raffineria, ed è venuto fino a Benghazi con una carovana di solidarietà organizzata dagli islamisti di Alexandria. Sono arrivati in 200, tutti ragazzi tra i 20 e i 30 anni, su 70 macchine, cariche di medicinali, cibo e latte, raccolto in beneficenza nella città. Per lui questa è la terza volta, ma questa è già la settima carovana di solidarietà che arriva a Benghazi dall’Egitto. La solidarietà tra i due paesi è forte. Un manifesto al tribunale dice “Libia e Egitto in una sola mano”. Oltre a Nader poi ci sono altri egiziani che a Benghazi ci vivono e che alla rivoluzione hanno preso parte attiva. Per esempio Mahmud e Islam, che dalla caserma ci danno uno strappo al tribunale. Mahmud è egiziano di famiglia, ma è nato qui a Benghazi, classe 1988. Questa è la sua città e ha combattuto dall'inizio con i ragazzi del 17 febbraio. Islam invece, che ha 30 anni e fa l'elettricista, è suo cognato. Vive con sua sorella da quando si è trasferito a Benghazi due anni fa. E per la rivoluzione lavora come elettricista volontario alla rinominata caserma dei martiri.

Nella piazza della rivoluzione di Benghazi anche il problema delle qabile, delle tribù insomma, sembra fittizio. Ci sono addirittura degli slogan, che da noi farebbero quantomeno sorridere. Suonano più o meno così: “Siamo un solo clan e Tripoli è la nostra capitale”, oppure “Siamo una sola qabila e il suo nome è Libia”. Mohamed, uno studente di ingegneria di 23 anni, figlio di un'impiegato della compagnia petrolifera Khalij, dice che non è più una cosa così importante. A casa sua per esempio sua padre è Warfala e sua madre di Misratah. E sua sorella che è Warfala si è appena sposata con un uomo di Misratah. E i suoi amici che incontriamo la sera in piazza sono tutti di qabile diverse. È una Libia diversa da quella dipinta nei discorsi di Gheddafi, che ha sempre dichiarato impossibile conciliare il carattere tradizionale delle qabile libiche con una logica di rappresentazione parlamentare sulla base di libere elezioni. É una Libia plurale, giovane e coraggiosa. Che riempie le piazze di Benghazi e sogna di raggiungere Tripoli. Sarà forse vero allora quello che hanno scritto con una bomboletta spray su un muro del palazzo di giustizia: “This is the real Libya”, questa è la Libia vera.