22 February 2011

Lampedusa chiama Tripoli. E risponde un eritreo

Crollano le borse, chiude il gasdotto e continuano le violenze. La Libia entra nel settimo giorno della rivoluzione scoppiata lo scorso 15 febbraio con il primo presidio antigovernativo a Benghazi. Da allora è successo di tutto: legioni straniere utilizzate dal regime per massacrare i civili, con armi pesanti e addirittura con colpi di antiaerea. I morti si contano ormai a centinaia, e al contrario di quanto dice Gheddafi - che oggi in televisione ha invitato il popolo alla guerra civile - è tutto documentato da filmati e fotografie amatoriali diffusi sul web. Ma in tutto questo nessuno si è chiesto cosa sta accadendo alle comunità africane a Tripoli. Sì perché, non lo dimentichiamo, parliamo di un paese dove vivono circa sei milioni di libici e un milione di emigrati africani.  Precisiamolo subito: la maggior parte sono comunità stabilmente inserite in Libia, sudanesi, chadiani, ghanesi, mentre una minoranza in Libia ci sono arrivati negli anni precedenti ai respingimenti per passare la frontiera e venire in Italia via mare. Ad ogni modo, rappresentano almeno il 15% della popolazione e possono fare la differenza, nel bene e nel male. Ma come si stanno schierando?

Tra i miliziani del regime abbiamo visto molti africani, alcuni sono stati linciati dalla folla, abbiamo visto le fotografie di documenti guineani, ma ancora non sappiamo esattamente di chi si tratti. Voglio dire se siano espatriati che si trovavano nelle galere libiche o se invece si tratta di una vera e propria legione straniera. E poi ci sono tutti gli altri africani, come si stanno comportando? Partecipano alle manifestazioni? Sono perseguitati da chi cerca il regolamento di conti con i miliziani e non guarda tanto per il sottile accontentandosi di accoltellare un nero? E poi non ci sono soltanto i neri. Una parte consistente dell'emigrazione in Libia è composta da egiziani, tunisini, pakistani, filippini, srilankesi. Cosa succederà se il paese finisce nel caos? Scapperanno?

La verità è che nessuno lo sa e che in questo momento dovrebbe essere un problema minore rispetto alla liberazione del paese dal regime di Gheddafi. Se non fosse che dalla Libia in questi giorni arrivano notizie, non confermate, di violente aggressioni contro le comunità afro di Tripoli. Si parla addirittura di attacchi casa per casa che avrebbero causato dei morti. Pure l'Unhcr ha espresso preoccupazione. Io dal canto mio mi limito a raccontare quello di cui sono sicuro. Anche se fa meno spettacolo. Perché finalmente, dopo due giorni di silenzio, sono riuscito a prendere di nuovo la linea con Tripoli e a parlare con un amico eritreo! Non chiedetemi come è successo! La chiamata è durata cinque minuti. E questo è quello che è venuto fuori.

Lui ovviamente ha un nome, ma non ve lo dico, per non metterlo nei guai. È bloccato a Tripoli da ormai quattro anni, insieme al fratello più piccolo e altri amici con cui condivide la stanza in una strada del quartiere Qurji, non lontano da Soq ath Thalatha. Era arrivato in Libia nel 2008 con l'idea di attraversare il mare, ma prima l'arresto a Misratah e poi l'avvio dei respingimenti, hanno fatto sì che ancora non sia partito. Quattro anni buttati via, che però forse adesso inizia a apprezzare di nuovo. Sì perché con il caos che c'è in giro, essere conosciuto da tutti nella strada in cui abiti diventa un privilegio per ogni straniero. Forse è per quello che ancora non è stato aggredito, o forse semplicemente per il fatto che: "Qui nel quartiere la situazione è tranquilla, gli scontri sono nel centro della città, noi stiamo bene".

Comunque, per sicurezza, lui dal 16 febbraio si è barricato nell'appartamento con i coinquilini. Scende solo alla bottega sotto casa per comprare il pane. Le notizie le seguono in televisione. Oggi per esempio quando ci siamo sentiti stavano ascoltando con apprensione il discorso di Gheddafi alla nazione. Di scendere in centro non se ne parla nemmeno. Ha paura. Per via della storia delle milizie africane e dei linciaggi che ci sono stati a Benghazi. Anche se poi lui, che ha una formazione scientifica - laureato in biologia marina all'università di Asmara - non sa dirmi se le milizie che ha visto lui lì a Tripoli siano africani oppure no. "Sono neri sì, ma non ci ho parlato, potenzialmente potrebbero essere anche libici, sai che al sud ci sono tanti libici neri, no?"

Ad ogni modo mi conforta dicendomi che a Tripoli, a parte alcune aggressioni isolate, la caccia al nero non è mai cominciata. Almeno nel suo quartiere. "Sai col fatto che i telefonini non funzionano non abbiamo notizie precise, siamo tutti chiusi in casa, comunque ho sentito che a Tripoli qualche nero è stato aggredito per strada, ma di morti no, non ne ho sentito parlare, e nemmeno di gente aggredita a casa, almeno nella nostra strada non è successo niente, ma qua siamo in periferia, è tranquillo, e comunque parlo solo di noi eritrei, non abbiamo contatti con le altre comunità."

Sulla possibilità di approfittare del caos per passare la frontiera e venire in Italia, ovviamente c'ha pensato anche lui, ma per ora non c'è niente di concreto. "Ne parliamo molto, è chiaro, in questo momento non ci sono controlli. Però non ci sono neanche le condizioni per organizzarsi. La gente è spaventata, non esce di casa. Io almeno non ho avuto nessuno contatto con intermediari che mi abbiano proposto la traversata. Aspettiamo e vediamo cosa succederà."