BRUXELLES – Ormai le parole si sono vuotate di senso. Il potere è libero di dire tutto e il contrario di tutto. Così, secondo il governo italiano, i respingimenti in Libia sono “conformi al diritto comunitario ed alle convenzioni internazionali vigenti, con particolare riguardo alla tutela delle persone richiedenti asilo o protezione internazionale”. È quanto scritto in una nota trasmessa dall’Italia venerdì 11 settembre alla Commissione europea, che lo scorso 15 luglio aveva chiesto chiarimenti sui respingimenti, secondo quanto riportato dall’Ansa. Ma come “conformi al diritto”? Più di 1.200 persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d'asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso presso un giudice. E sono state respinte in Libia, scaricate a colpi di remi al porto di Tripoli, chiuse in un carro bestiame e trasportate in sovraffollati centri di detenzione, dove è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti. Che fine ha fatto l'articolo 4 del quarto protocollo della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”, che vieta espressamente le deportazioni collettive? E l'articolo 3 della stessa Convenzione, che vieta tortura e trattamenti inumani e degradanti, oltre che la riammissione in paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura? E l'articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo? E che fine ha fatto la Bossi-Fini?
Perché guardate, se è vero che i respingimenti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto vero che gli emigranti respinti sono stati fatti salire a bordo di unità marittime italiane, che in base all'articolo 4 del codice di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, che vieta il respingimento in frontiera “nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari” (articolo 10, comma 4 del Testo unico). A quale diritto si riferisce allora la nota inviata dall’Italia alla Commissione europea? Se davvero il Viminale è così sicuro delle proprie ragioni, perché non mostra alla Commissione europea e ai cittadini italiani il video girato dalla Guardia di Finanza durante il respingimento del 6 maggio scorso? Chi lo ha visto ne è rimasto scioccato per la violenza con cui i respinti venivano scaricati al porto di Tripoli. Perché non abbiamo mai visto le immagini dei respingimenti nei telegiornali? Perché, dopo le foto scattate da Dagnino, i giornalisti non sono più autorizzati a salire a bordo delle unità della Guardia di Finanza e della Marina?
Sarebbe interessante capirlo, così almeno potremmo dare una spiegazione anche ai respinti che ancora oggi si trovano incarcerati in Libia. Potremmo anche rinfrancarli sulla bontà della loro sorte. Nella stessa nota infatti, l’Italia sottolinea come, grazie anche alla riduzione del 90% degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane tra maggio e agosto, sia stato possibile prevenire la perdita di molte vite umane. È statistica. Ma che differenza c’è tra morire in mare, annegati, e essere lasciati morire in un carcere libico? Quanti giovani marciscono per anni nei campi libici dopo essere stati arrestati sulla rotta per l’Italia? Pensate soltanto a Misratah. Da tre anni circa 600 eritrei vi sono detenuti, senza opportunità di uscita, se non il resettlement per i casi più vulnerabili. La maggior parte sono registrati presso l’ufficio dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, a Tripoli, ma ciò non fa di loro uomini liberi. In mezzo a loro c’è anche un gruppo degli eritrei respinti dall’Italia lo scorso primo luglio. Siamo riusciti a parlare con uno di loro. Che ci ha confermato i pestaggi subiti a bordo della nave militare italiana da chi aveva tentato di opporsi alla riconsegna ai libici. Manganellate e scariche elettriche. Poi il carcere in Libia. Il tutto “con particolare riguardo alla tutela delle persone richiedenti asilo o protezione internazionale”.
Facciano una cosa i funzionari della Commissione europea. Non è difficile. Vadano in Libia e chiedano la versione dei fatti agli oltre 1.200 respinti. Vadano a Misratah, a Garaboulli, a Tuaisha, a Zawiyah, a Zuwarah, a Ganfuda. Nei campi di detenzione troveranno centinaia di testimoni pronti a smontare le tesi del governo italiano.