ROMA – Ma dove sono andati a finire i primi respinti in Libia? Ricordate? Era il sei maggio del 2009. Le autorità italiane intercettarono nel Canale di Sicilia tre gommoni con 227 passeggeri, e per la prima volta in anni di pattugliamento, venne dato l’ordine di respingere tutti in Libia. Comprese le 40 donne. Una “svolta storica”, la definì il ministro dell’interno Roberto Maroni, che rassicurò gli scettici: “La Libia fa parte dell’Onu: lì c’è l’Unhcr che può fare l’accertamento delle persone che richiedono asilo”. A quattro mesi di distanza però la verità inizia a venire a galla. A parlare sono le vittime di quei respingimenti. Ventiquattro rifugiati somali e eritrei, che dalle carceri libiche hanno nominato l’avvocato Anton Giulio Lana, perché denunci l’Italia alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Il ricorso è stato depositato a luglio. Oggi, a quattro mesi di distanza dal respingimento, Lana sostiene che i suoi assistiti siano ancora detenuti nei campi libici. Tra loro ci sono 11 cittadini eritrei, fuggiti dopo anni di servizio nell’esercito, in un paese dove la coscrizione militare a tempo indeterminato è diventata una delle armi del regime di Isaias Afewerki per controllare la popolazione. E 13 cittadini somali sfuggiti alla violenza della guerra civile. Persone che in Italia si vedrebbero riconosciuto un permesso di soggiorno per asilo politico. Ma che in Libia marciscono in carcere da quattro mesi, dal giorno del loro respingimento, sotto gli occhi impotenti delle Nazioni Unite invocate da Maroni. Ecco le loro storie.
“La Libia fa parte dell’Onu”
Tra i respinti c’era anche chi era già stato riconosciuto come rifugiato politico dalle Nazioni Unite. K. ad esempio ricevette l’asilo che nel settembre 2006 in un campo profughi in Sudan. Era stato arruolato nell’esercito eritreo nel 2000, all’età di 19 anni. Dopo un anno e mezzo di leva, senza salario, e con la prospettiva di rimanere tutta la vita abbracciato a un fucile, K. disertò. Ma la sua latitanza durò poco. Nel 2004 venne arrestato dalla polizia militare, trasportato a Korkogy e detenuto per due anni. Tornato in libertà, nell’agosto del 2006 fu ricollocato in una divisione dell’esercito nel Mandefra. K. stavolta decise di abbandonare definitivamente il paese, e riuscì a raggiungere clandestinamente il Sudan, dove chiese asilo in un campo profughi. In Sudan però circolavano voci di deportazioni organizzate dai servizi segreti eritrei. K. non si sentiva al sicuro. Decise di emigrare in Europa, e attraversò il deserto. In Libia lo arrestarono quasi subito, a Ajdabiya, da dove fu trasferito al campo di detenzione degli eritrei, a Misratah, la vecchia Misurata di coloniale memoria. Vi rimase dall’aprile del 2007 fino alla fine di marzo del 2009. Per l’Italia si imbarcò poco dopo, all’inizio di maggio. Il suo gommone però fu respinto. Oggi, quattro mesi dopo, si trova ancora in un campo di detenzione in Libia, pur essendo difeso da un avvocato di rango internazionale dinnanzi alla Corte europea e pur essendo un rifugiato politico riconosciuto a tutti gli effetti dalle Nazioni Unite.
Respinto due volte
Tra i respinti poi c’è chi la traversata l’aveva già provata, e lo avevano già respinto. L’anno scorso però, prima dell’accordo stretto tra Italia e Libia. Forse qualcuno ricorderà il caso del “Clot de l'Illot”, il peschereccio spagnolo, che il 22 agosto del 2008, dopo un braccio di ferro diplomatico tra Spagna e Libia, attraccò al porto di Tripoli riconsegnando 49 naufraghi alle guardie libiche. Li avevano soccorsi in acque internazionali, 90 miglia a sud di Malta. A bordo c’erano anche donne e bambini. Erano in mare da giorni, cinque dei passeggeri erano morti di stenti. All’arrivo dei soccorsi, due persone furono elitrasportate in Italia. Gli altri invece furono riportati tutti a Tripoli e finirono nel carcere di ‘Ain Zara. A. era uno di loro. Si fece otto mesi. Appena riuscì a scappare, si comprò subito un altro passaggio per l’Europa. Rimanere in Libia in quelle condizioni era impensabile. Ma il suo gommone venne respinto. Era il 6 maggio del 2009. Quattro mesi dopo, A. si trova ancora dietro le sbarre. Eppure in Italia otterrebbe facilmente l’asilo politico. Classe 1983, ha lasciato Mogadiscio nel 2006. La minoranza degli Ashraf, a cui appartiene, negli ultimi anni ha subito numerose persecuzioni da parte del clan maggioritario del paese, gli Hawiye. Nel 2004, suo padre fu ucciso per mano di un Hawiye, che aveva cercato di estorcergli con la forza il certificato di proprietà della casa. E lo stesso A., prima di partire, era stato costretto sotto minaccia a divorziare dalla moglie.
In mare da 12 giorni
Una delle imbarcazioni intercettata dalle motovedette italiane il 6 maggio scorso e riportata in tutta fretta a Tripoli, era in mare da 12 giorni e i passeggeri non erano in buone condizioni di salute. Lo sostengono due dei rifugiati somali che hanno denunciato l’Italia. B. è uno di loro. Costretto a lasciare la Somalia nel marzo 2008, in seguito agli scontri tra le Corti islamiche e il governo di transizione, arrivò in Libia dopo aver attraversato clandestinamente Etiopia e Sudan. La prima volta partì nel febbraio del 2009, ma persero la rotta e finirono a Bengasi, dove furono tutti arrestati. Riuscito a fuggire dal campo di detenzione nell’aprile del 2009, acquistò quanto prima un posto su un gommone diretto in Italia, ma il carburante era insufficiente e finirono presto alla deriva. Dopo 12 giorni in mare, finalmente arrivarono i soccorsi, ma anche l’immediato respingimento. Su quella stessa barca viaggiava anche C., un ragazzo somalo di 25 anni fuggito da Mogadiscio nel marzo del 2007. All’epoca si era rifugiato in un campo profughi a Elasha. La madre e il fratello erano rimasti feriti negli scontri a fuoco nella capitale, e la loro casa era stata distrutta dai bombardamenti. Nel dicembre del 2007 decise di prendere la rotta per l’Europa. Il giorno del respingimento, C. era in pessime condizioni di salute, e nonostante ciò venne comunque detenuto, insieme agli altri, nel campo di Garaboulli, vicino Tripoli, senza ricevere nessuna cura. A oggi è tuttora in carcere.
Il partigiano respinto
Capita di combattere per l’indipendenza del proprio paese. Di essere feriti in guerra, di ricevere i massimi onori, e poi di dover fuggire da quello stesso paese per cui si è rischiato la vita. E di essere respinti alle frontiere dei Paesi vicini presso cui si voleva chiedere asilo. È la storia di M., nato in Eritrea nel 1978. Nel 1999 il signor M. venne richiamato alle armi per difendere la patria, nella seconda guerra etiope-eritrea. Dopo tre giorni di combattimenti sul fronte, M. venne gravemente ferito a una gamba e ricoverato d’urgenza presso l’ospedale Makanaheiwt a Asmara. Dopo nove mesi di ricovero, nel 2001 venne ricollocato presso la 22° divisione a Dekemhare. I guai arrivarono nel giugno del 2008. Per una banale visita alla famiglia, effettuata però senza avere preventivamente ottenuto un permesso ufficiale dell’esercito. La polizia fece arrestare suo padre, intimandogli di consegnare il figlio alle autorità. Temendo per la sua incolumità, M. si consegnò spontaneamente. I tre mesi nel carcere militare di Alla furono terribili. Lo misero ai lavori forzati, e quando non lavorava lo costringevano a lunghe marce sotto il sole. Quando riuscì a evadere, nel novembre del 2008, entrò clandestinamente in Sudan. E poi proseguì il viaggio, perché a Khartoum non si sentiva protetto dalle incursioni dei servizi segreti eritrei. Lo stesso timore lo spinse a imbarcarsi dalla Libia verso l’Italia. Non aveva calcolato però che da maggio l’Italia ha fermato l’invasione.