GENOVA, 21/04/08 - Danno l'assalto all'Occidente a mani nude, soli, senza l'aiuto delle organizzazioni dei trafficanti. Vengono accolti sempre con lo stesso grido: "Stowaway on board!" , clandestino a bordo. Ogni anno nel mondo accade circa duemila volte: lungo le rotte dall'Africa all'Europa, dal Golfo di Guinea al Brasile, dall'Asia alla costa orientale degli Stati Uniti. Nel solo porto di Genova, secondo i dati della polizia del mare, dal gennaio del 2007 ne sono arrivati dieci. Qualcuno è stato individuato durante il viaggio, altri sono sbucati dopo l'approdo. Chi dal bagagliaio di una macchina, chi da un container, chi dal vano del timone.
Anche in Italia gli addetti ai lavori li indicano col termine inglese: "stowaway", forse perché da noi la parola "clandestino" ha assunto troppi ed equivoci significati e non individua più l'uomo che, in solitudine, con la sola forza dell'intelligenza e il solo sostegno della fortuna, tenta di modificare il proprio destino.
La fortuna è fondamentale per lo stowaway. Mamadou Cisse, che adesso vive in Italia, probabilmente è uno dei clandestini più fortunati del mondo. Ne è consapevole. "Sono entrato nella nave nascosto sotto un camion - racconta - L'autista, un senegalese, mi ha scoperto. Gli ho messo in mano una moneta da 50 centesimi che mi era stata regalata da un turista. L'ha presa ed è stato zitto".
Difficile, invece, individuare il più sfortunato tra gli stowaway. Verrebbe da dire Amor Knis, il venticinquenne tunisino che morì soffocato nel bagagliaio dell'auto della sua fidanzata italiana durante quel viaggio di trenta ore nel garage del traghetto per Genova. O forse Kaled Araba Kail, il quattordicenne afgano che all'inizio di febbraio era riuscito a raggiungere il porto di Ancona, a scendere dalla nave legandosi sotto un camion. Poi una parte dell'imbragatura ha ceduto, il camion ha preso l'autostrada e Kaled è morto scorticato sull'asfalto.
Ma lui almeno ha un sepolcro. Molti altri si sono dissolti in mare. La verità è che dello stowaway più sfortunato non si conosce il nome. Sono lontanissimi i tempi di Joseph Conrad, quando il comandante poteva individuare nel clandestino il proprio alter ego e diventarne amico. Ma sembrano anche passati mille anni, mentre invece sono soltanto una decina, dai giorni in cui un giovane stowaway senegalese divenne una personalità del porto, entrò a far parte dell'equipaggio nave e, alla fine, riuscì a regolarizzarsi e a stabilirsi in Italia.
Il fatto è che negli ultimi anni la qualità umana della marineria internazionale è molto peggiorata. "Tra gli ufficiali - dice il vicequestore della Polmare Marco Allegretti - si possono trovare persone di prim'ordine ma anche personaggi che ti domandi chi possa aver elevato a un ruolo di tanta responsabilità". Quanto agli equipaggi, sempre più spesso sono composti da bassa manovalanza reclutata nel Terzo mondo. Inoltre, il clandestino a bordo crea molti più problemi di un tempo. "Quasi tutte le navi del mondo - spiega Paolo Cavanna, per anni consulente delle Nazioni Unite e dell'Unione europea, oggi collaboratore della "Stella Maris", l'apostolato del mare - ormai hanno equipaggi ridottissimi e spazi essenziali. Insomma, è difficile trovare un luogo fisico dove sistemare il passeggero indesiderato che, oltretutto, dal punto di vista economico, è interamente a carico dell'armatore. A questo vanno aggiunti i rischi penali: il confine tra l'omessa vigilanza e il favoreggiamento è diventato molto sottile".
Dopo l'identificazione, la polizia riconsegna lo stowaway al comandante che deve sorvegliarlo (ma non può usare strumenti coercitivi: per il caso di Mamadou è infatti in corso un procedimento penale) e deve comunque curarne il rimpatrio. Se la nave non deve tornare al porto dove è avvenuto l'imbarco illegale, l'armatore è costretto ad acquistare un biglietto aereo. Secondo uno studio della "P&I", compagnia internazionale di assicurazioni armatoriali, ogni clandestino costa dai quindici ai diciottomila euro. La stessa P&I, infatti, offre una "polizza contro il rischio stowaway". "Sono pratiche - spiega l'avvocato Filippo Bruno, dello studio legale Mordiglia, uno dei più importanti d'Italia in materia di diritto di navigazione - che trattiamo con una certa regolarità".
L'uso di buttare i clandestini in mare non è una leggenda nera della marineria. L'ultimo episodio è avvenuto pochi mesi fa nel Canale di Sicilia. Anche se quel giovane somalo non era tecnicamente uno stowaway: non era stato scoperto sulla nave ma l'aveva raggiunta a nuoto dopo essersi tuffato dal gommone col quale, assieme a sessanta connazionali, tentava di raggiungere l'Italia. Il comandante l'ha ributtato in acqua e la cosa sarebbe finita là se il gommone non fosse arrivato a Lampedusa dove i compagni della vittima hanno raccontato tutto. Il peschereccio è stato individuato e gli uomini dell'equipaggio hanno confermato il racconto dei migranti. Così il comandante è stato arrestato: omicidio volontario.
Un caso. Perché è molto raro che vicende di questa ferocia abbiano testimoni che non siano, nello stesso tempo, complici. Ma è il mare, a volte, a raccontarle col suo linguaggio di distanze e correnti. "Quando vedi un cadavere che galleggia a sessanta miglia dalla costa, lontano dalle rotte dei boat people, sai che non può che essere caduto da una nave", dice Salvatore Lupo, primo ufficiale sulle rotte tra l'Africa settentrionale e l'Italia.
Benché oscurata dagli sbarchi di massa a Lampedusa, la tecnica individuale di assalto alla Fortezza Europa preesiste all'inizio dei grandi flussi migratori dall'Africa e dall'Asia. "Tra il 1976 e il 1978 - racconta Ferdinando Buovolo, oggi comandante sulle navi della Tirrenia - ho lavorato sulle rotte mercantili dalla Nigeria e dal Lagos. All'equipaggio venivano pagate sempre un paio d'ore di straordinario per la 'ispezione anti-clandestini'. Ma, nonostante i controlli, era frequente che qualcuno riuscisse a entrare". Nel 2004 è stato introdotto l'Isps Code, un protocollo antiterrorismo per la sicurezza delle navi. I controlli sono diventati più severi e il numero di stowaway si è ridotto. Ma, contemporaneamente, si sono affinate le tecniche di imbarco clandestino.
Siamo in un Internet point. Hassan, trentenne egiziano, apre un sito con gli orari delle navi della "compagnia Messina": "E' quanto ho fatto in Libia. Così ho saputo i giorni nei quali la nave italiana sarebbe stata a Tripoli". Quindi va su Google map. Il porto di Tripoli è nitidissimo. Hassan, muovendo la freccia del mouse, ricostruisce il suo percorso notturno dalla spiaggia di un albergo fino al molo. "Ho aspettato le due di notte e sono salito a bordo arrampicandomi su una cima. Ho raggiunto la zona dei motori e mi sono infilato in una scatola metallica che conteneva attrezzi di lavoro. Mi hanno trovato dopo cinque giorni".
Appena il traghetto è giunto a Genova, Hassan è stato affidato al comandante perché lo riportasse a Tripoli. "Poche ore prima della partenza ho rotto un bicchiere e mi sono tagliato l'interno della bocca. Ho cominciato a vomitare sangue. Mi hanno sbarcato subito per ricoverarmi in ospedale. Sono fuggito da lì qualche giorno dopo". L'ex stowaway Hassan è così diventato un "clandestino" nel linguaggio corrente.
Mamadou Cisse, invece, non ha pianificato la fuga. Ha lasciato il suo villaggio della Nuova Guinea con la sola idea di arrivare in qualche modo in Europa. E' entrato in Senegal, ha raggiunto Dakar e ha vagato per qualche settimana nel porto osservando i movimenti delle navi più grandi. E' salito sulla prima dove ha potuto. Non ricorda esattamente la durata della navigazione. "Forse una settimana. E' stato un viaggio durissimo. Assieme a un altro ragazzo siamo entrati via mare all'interno del vano del timone. Siamo rimasti là per tutto il tempo. Avevamo acqua e viveri". Dopo l'approdo, Mamadou e il suo compagno d'avventura hanno atteso la notte e hanno raggiunto una banchina. Li hanno visti e arrestati. Solo in quel momento hanno saputo dove si trovavano: Santos, Brasile. In Europa il pur fortunato Mamadou c'è arrivato al secondo tentativo.
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