OUGADOUGOU, 8 marzo 2009 – Si è chiusa ieri la 21° edizione del Festival del Cinema africano di Ouagadougou (Fespaco), principale appuntamento biennale dei registi africani da ormai 40 anni. Per una settimana, la città è stata invasa da centinaia di giornalisti, attori, registi, produttori, cinefili e turisti che nonostante tutte le difficoltà organizzative – la direzione del festival è stata epurata dal nuovo ministro della cultura – hanno seguito con partecipazione il fitto programma di proiezioni, animati ogni sera dai concerti della notte ouagalese.
Quello dell'emigrazione rimane uno dei temi più esplorati dal cinema africano. Tanto i documentari che la fiction raccontano i pericoli dei viaggi, il senso di impotenza dei giovani, l'ossessione di partire, e lo smarrimento di chi ritorna. A partire dall'italiano “Come un uomo sulla terra”, di A.Segre, D.Yimer e R. Biadene, proiettato in anteprima africana. Per la prima volta a sud del Sahara, un film parla dei campi di detenzione in Libia finanziati dall'Italia per combattere l'emigrazione verso Lampedusa.
Ma sono soprattutto i lavori dei registi dell'Africa occidentale a centrare il tema. A partire dal riuscito “Dieu a t-il quitté l'Afrique”, del senegalese Musa Dieng Kala, formato in Canada e già autore di diversi video clip di Youssou N'Dour. Dopo il ritrovamento a Bruxelles dei cadaveri di due giovani guineani nel vano carrello di un aereo partito da Conakry, Musa ritorna a Dakar, cercando una risposta all'inquietante domanda: “Dio ha abbandonato l'Africa?”. Attraverso il racconto della vita quotidiana di Kader, Ibrahima, Ahmadou e Djiby e del loro sogno per l'Europa, emerge il senso di impotenza degli individui di fronte all'indifferenza internazionale e al disimpegno della classe dirigente. Senegalese è anche Idrissa Guiro, regista di “Barcelone ou la mort”, girato nella città costiera di Thiaroye, che in questi anni ha visto morire tanti dei suoi ragazzi sulla rotta per le isole Canarie.
Da segnalare anche “Victimes de nos richesses”, del guineano Touré Kal. Il racconto parte dal forum sociale di Bamako del 2006 e dal lavoro di Aminata Traoré, nota attivista maliana, da alcuni anni impegnata anche nell'accoglienza dei migranti espulsi dall'Algeria nel deserto maliano. È attraverso le testimonianze dei refoulés che Kal ricostruisce i fatti di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulla costa marocchina, dove nel 2005 vennero uccisi a colpi di arma da fuoco 17 giovani emigranti sub-sahariani. Accanto alle storie personali, Kal inserisce le voci di storici e attivisti della società civile maliana, che analizzano l'emigrazione a partire dall'impoverimento dei paesi africani e dalle responsabilità della colonizzazione.
E l'emigrazione è anche al centro della fiction. Ad esempio in “Paris à tout prix”, della camerunese Joséphine Ndangou. Ambientato in un quartiere popolare di Yaoundé, racconta la storia di Suzy, una ragazza decisa a raggiungere la Francia per riscattare la propria famiglia dalla povertà. Truffata da un uomo d'affari che le proponeva un visto turistico, e poi arrestata durante il tentativo di passare senza documenti la frontiera con la Guinea equatoriale, Suzy decide di vendere il proprio corpo per raggiungere il proprio obiettivo. Ma una volta arrivata a Parigi non troverà quello che cercava. E una lite con una amica causerà l'arrivo della polizia e il rimpatrio.
Sono molti poi i film del festival che non parlano direttamente di emigrazione, ma i cui protagonisti sono emigrati. Ad esempio il bello e angosciante “L'absence”, del guineano Mama Keita, centrato sulla storia di un emigrato senegalese e sugli effetti negativi della sua “assenza”. Mentre in Francia coltiva una vita di successo nel lavoro, a Dakar la sorella, muta, si perde nel mondo della prostituzione e il suo ritorno non basterà a salvarla. E poi “Française”, della marocchina Souad El Boulatte, la cui protagonista, Sofia, si scontra con la società conservatrice marocchina, dove è tornata con la famiglia dopo un'infanzia trascorsa in Francia. Scarsa qualità cinematografica di “Trapped Dream”, una storia d'amore tra una ragazza senegalese e un avventuriero nigeriano bloccato a Dakar sulla rotta per le isole Canarie.
Resta da capire che distribuzione avranno questi film. Se infatti in paesi come Marocco e Egitto i film nazionali sono i primi anche al botteghino, a sud del Sahara i maggiori incassi sono ancora registrati dai film americani e indiani. A questo proposito, interessante è il nuovo lavoro del camerunese Jean Marie Teno, che ha girato un documentario intorno a un cine club dell'unico quartiere popolare rimasto nel centro di Ouagadougou, Saint Leon, tra la Cattedrale e la Grande Moschea. “Lieux Saints”, così si intitola il film, racconta le contraddizioni della distribuzione dei titoli africani. Distribuiti in sale a prezzi inaccessibili, eppure molto amati dalla gente, che riesce a vederli soltanto in copie pirata, nei televisori dei piccoli e economici cine club di periferia.
Per quanto invece riguarda l'Italia, bisognerà aspettare i prossimi festival del cinema africano di Milano e Verona, i cui responsabili sono venuti a Ouagadougou proprio per scegliere i titoli delle prossime edizioni. C'è da augurarsi di riuscire a vedere in Italia almeno i primi tre film premiati dalla giuria. Nell'ordine: l'etiope “Teza”, di Haile Gerima, già premiato a Venezia e Carthage. Il sudafricano “Nothing but the truth” di John Kani. E la brillante commedia algerina “Mascarades”, diretta da Lyes Salem. Tra i documentari invece speriamo invece che sia distribuito il bello e coraggioso “Un affaire de nègres”, della regista camerunese Lewat Osvalde. Un film inchiesta che racconta le stragi commesse dai reparti speciali della polizia di Douala, durante operazioni di lotta alla criminalità nei quartieri poveri della città.
Sempre nella sezione documentari, “En attendant les hommes”, della senegalese Ndiaye Katy, ritrae un gruppo di donne mauritane e la loro “attesa” dei mariti impegnati in lavori stagionali e lontani da casa per mesi. Splendida la fotografia. Decisamente interessante anche “Nos lieux interdits” della marocchina Kilani Leila. Premiato dalla giuria come miglior documentario, racconta la stagione del terrore di Hassan II, quando negli anni Settanta oltre 30.000 cittadini marocchini furono arrestati e uccisi per reati politici. E poi “Ouled Lenine”, disincantato racconto della deriva dittatoriale della Tunisia di Bourghiba e Ben Ali, ricostruito dalle voci dei membri del vecchio partito comunista tunisino.
Vedere questi film nelle nostre sale servirebbe forse più di ogni campagna antirazzista, a riportarci verso la realtà delle cose. A creare consenso intorno alle politiche razziste contro gli emigrati è infatti uno speciale collante che si chiama ignoranza. Nella piccola Italietta, ne siamo tutti impregnati. Nel nostro immaginario l'Africa è un continente senza storia, dilaniato dalle carestie e dalle guerre, pieno di straccioni pronti a invadere il nostro civile paese. Guardare all'Africa per il valore artistico delle sua cinematografia emergente, aiuterebbe a de-costruire quel pregiudizio. Osservare le immagini delle città africane e ascoltare le storie delle nuove generazioni ci permetterebbe di ricostruire un ritratto più veritiero del velocissimo percorso di rinnovamento che il continente sta vivendo. E quindi di restituire all'Africa un posto nella storia e una ritrovata dignità
Quello dell'emigrazione rimane uno dei temi più esplorati dal cinema africano. Tanto i documentari che la fiction raccontano i pericoli dei viaggi, il senso di impotenza dei giovani, l'ossessione di partire, e lo smarrimento di chi ritorna. A partire dall'italiano “Come un uomo sulla terra”, di A.Segre, D.Yimer e R. Biadene, proiettato in anteprima africana. Per la prima volta a sud del Sahara, un film parla dei campi di detenzione in Libia finanziati dall'Italia per combattere l'emigrazione verso Lampedusa.
Ma sono soprattutto i lavori dei registi dell'Africa occidentale a centrare il tema. A partire dal riuscito “Dieu a t-il quitté l'Afrique”, del senegalese Musa Dieng Kala, formato in Canada e già autore di diversi video clip di Youssou N'Dour. Dopo il ritrovamento a Bruxelles dei cadaveri di due giovani guineani nel vano carrello di un aereo partito da Conakry, Musa ritorna a Dakar, cercando una risposta all'inquietante domanda: “Dio ha abbandonato l'Africa?”. Attraverso il racconto della vita quotidiana di Kader, Ibrahima, Ahmadou e Djiby e del loro sogno per l'Europa, emerge il senso di impotenza degli individui di fronte all'indifferenza internazionale e al disimpegno della classe dirigente. Senegalese è anche Idrissa Guiro, regista di “Barcelone ou la mort”, girato nella città costiera di Thiaroye, che in questi anni ha visto morire tanti dei suoi ragazzi sulla rotta per le isole Canarie.
Da segnalare anche “Victimes de nos richesses”, del guineano Touré Kal. Il racconto parte dal forum sociale di Bamako del 2006 e dal lavoro di Aminata Traoré, nota attivista maliana, da alcuni anni impegnata anche nell'accoglienza dei migranti espulsi dall'Algeria nel deserto maliano. È attraverso le testimonianze dei refoulés che Kal ricostruisce i fatti di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulla costa marocchina, dove nel 2005 vennero uccisi a colpi di arma da fuoco 17 giovani emigranti sub-sahariani. Accanto alle storie personali, Kal inserisce le voci di storici e attivisti della società civile maliana, che analizzano l'emigrazione a partire dall'impoverimento dei paesi africani e dalle responsabilità della colonizzazione.
E l'emigrazione è anche al centro della fiction. Ad esempio in “Paris à tout prix”, della camerunese Joséphine Ndangou. Ambientato in un quartiere popolare di Yaoundé, racconta la storia di Suzy, una ragazza decisa a raggiungere la Francia per riscattare la propria famiglia dalla povertà. Truffata da un uomo d'affari che le proponeva un visto turistico, e poi arrestata durante il tentativo di passare senza documenti la frontiera con la Guinea equatoriale, Suzy decide di vendere il proprio corpo per raggiungere il proprio obiettivo. Ma una volta arrivata a Parigi non troverà quello che cercava. E una lite con una amica causerà l'arrivo della polizia e il rimpatrio.
Sono molti poi i film del festival che non parlano direttamente di emigrazione, ma i cui protagonisti sono emigrati. Ad esempio il bello e angosciante “L'absence”, del guineano Mama Keita, centrato sulla storia di un emigrato senegalese e sugli effetti negativi della sua “assenza”. Mentre in Francia coltiva una vita di successo nel lavoro, a Dakar la sorella, muta, si perde nel mondo della prostituzione e il suo ritorno non basterà a salvarla. E poi “Française”, della marocchina Souad El Boulatte, la cui protagonista, Sofia, si scontra con la società conservatrice marocchina, dove è tornata con la famiglia dopo un'infanzia trascorsa in Francia. Scarsa qualità cinematografica di “Trapped Dream”, una storia d'amore tra una ragazza senegalese e un avventuriero nigeriano bloccato a Dakar sulla rotta per le isole Canarie.
Resta da capire che distribuzione avranno questi film. Se infatti in paesi come Marocco e Egitto i film nazionali sono i primi anche al botteghino, a sud del Sahara i maggiori incassi sono ancora registrati dai film americani e indiani. A questo proposito, interessante è il nuovo lavoro del camerunese Jean Marie Teno, che ha girato un documentario intorno a un cine club dell'unico quartiere popolare rimasto nel centro di Ouagadougou, Saint Leon, tra la Cattedrale e la Grande Moschea. “Lieux Saints”, così si intitola il film, racconta le contraddizioni della distribuzione dei titoli africani. Distribuiti in sale a prezzi inaccessibili, eppure molto amati dalla gente, che riesce a vederli soltanto in copie pirata, nei televisori dei piccoli e economici cine club di periferia.
Per quanto invece riguarda l'Italia, bisognerà aspettare i prossimi festival del cinema africano di Milano e Verona, i cui responsabili sono venuti a Ouagadougou proprio per scegliere i titoli delle prossime edizioni. C'è da augurarsi di riuscire a vedere in Italia almeno i primi tre film premiati dalla giuria. Nell'ordine: l'etiope “Teza”, di Haile Gerima, già premiato a Venezia e Carthage. Il sudafricano “Nothing but the truth” di John Kani. E la brillante commedia algerina “Mascarades”, diretta da Lyes Salem. Tra i documentari invece speriamo invece che sia distribuito il bello e coraggioso “Un affaire de nègres”, della regista camerunese Lewat Osvalde. Un film inchiesta che racconta le stragi commesse dai reparti speciali della polizia di Douala, durante operazioni di lotta alla criminalità nei quartieri poveri della città.
Sempre nella sezione documentari, “En attendant les hommes”, della senegalese Ndiaye Katy, ritrae un gruppo di donne mauritane e la loro “attesa” dei mariti impegnati in lavori stagionali e lontani da casa per mesi. Splendida la fotografia. Decisamente interessante anche “Nos lieux interdits” della marocchina Kilani Leila. Premiato dalla giuria come miglior documentario, racconta la stagione del terrore di Hassan II, quando negli anni Settanta oltre 30.000 cittadini marocchini furono arrestati e uccisi per reati politici. E poi “Ouled Lenine”, disincantato racconto della deriva dittatoriale della Tunisia di Bourghiba e Ben Ali, ricostruito dalle voci dei membri del vecchio partito comunista tunisino.
Vedere questi film nelle nostre sale servirebbe forse più di ogni campagna antirazzista, a riportarci verso la realtà delle cose. A creare consenso intorno alle politiche razziste contro gli emigrati è infatti uno speciale collante che si chiama ignoranza. Nella piccola Italietta, ne siamo tutti impregnati. Nel nostro immaginario l'Africa è un continente senza storia, dilaniato dalle carestie e dalle guerre, pieno di straccioni pronti a invadere il nostro civile paese. Guardare all'Africa per il valore artistico delle sua cinematografia emergente, aiuterebbe a de-costruire quel pregiudizio. Osservare le immagini delle città africane e ascoltare le storie delle nuove generazioni ci permetterebbe di ricostruire un ritratto più veritiero del velocissimo percorso di rinnovamento che il continente sta vivendo. E quindi di restituire all'Africa un posto nella storia e una ritrovata dignità