28 August 2007

Salvataggio sotto accusa: Roma sapeva; la Guardia costiera lo incoraggiò

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AGRIGENTO, 28 agosto 2007 – Emergono sconcertanti particolari dal processo per direttissima in corso ad Agrigento contro i sette pescatori tunisini del Morthada e del Mohammed el-Hedi, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver sbarcato a Lampedusa, lo scorso 8 agosto, 44 naufraghi soccorsi in mare lungo le rotte per l’isola.

Il comandante di uno dei pescherecci, impegnati in una battuta di pesca a “cianciolo” assieme alla nave madre Karim Allah, ha sempre dichiarato che lanciò un allarme via radio al momento dei soccorsi. E questa mattina la difesa, ufficiata dagli avvocati Marino Leonardo e Giacomo La Russa, ha chiesto la messa agli atti di un fax inviato l’8 agosto alle 15:15 dal Centro di coordinamento delle ricerche in mare e del soccorso di Tunisi (Mrcc, Maritime search and Rescue Coordination Center) all’Mrcc di Roma e di Malta. Il messaggio, redatto in inglese, informa che due motopescherecci tunisini hanno “salvato” 44 migranti e che uno dei naufraghi ha bisogno di assistenza medica. Il fax dà anche le coordinate geografiche del posizionamento dei natanti: 34°58’ nord e 014°56’ est. Ovvero una trentina di miglia a sud di Lampedusa e circa 90 a nord del porto di Monastir, da dove i pescatori dichiarano di essere partiti per una battuta di pesca.

L’Italia decide di intervenire inviando la motovedetta G-79 della Guardia di finanza, già in zona, e allertando la nave della Marina, Vega, a recarsi con il medico di bordo per soccorrere i naufraghi. Fin qui tutto bene. Sul Morthada e sull’Hedi sono saliti i naufraghi, tirandosi su grazie a delle corde tese dai marinai, mentre il gommone su cui erano partiti tre giorni prima da Zuwarah, in Libia, affondava avendo imbarcato acqua a causa di uno sgonfiamento della camera d’aria anteriore. Il medico della Vega, sopraggiunta alle 18:14, a sole 14 miglia da Lampedusa, ovvero a 2 miglia dalle acque territoriali, abborda su un gommone i due pescherecci, ma non sale a bordo. Si limita a prendere in braccio un bambino disabile di 9 anni sull’Hedi e a chiedere ai passeggeri del Morthada se qualcuno stia poco bene. Sono le 18:25. Il mare è forza 4, le onde sono alte due metri. Alle 18:50 il pattugliatore da guerra Vega lascia la zona dirigendosi 34 miglia a sud di Lampedusa, per un altro allarme. E qui inizia il giallo. 

Nella zona da dove arriva la nuova segnalazione, l’elicottero della nave Vega fotografa una motovedetta militare tunisina intenta a caricare a bordo un gruppo di migranti per poi fare rotta verso la costa tunisina, fra l’altro senza rispondere ai messaggi radio inviati dalla Marina italiana. Era questa probabilmente la nave di cui parlava la comunicazione inviata alle 15:15 all’Mrcc italiano, dove si legge: “una unità militare tunisina sta procedendo verso la zona indicata e stima di raggiungere la zona per le 18:30”. Quella nave non si è mai presentata, e il soccorso è stato fatto dagli italiani. Non solo. Appena allontanatasi la Vega, uomini a bordo delle due motovedette della Guardia costiera e di quella della Finanza, ha raccontato il testimone sudanese esaminato questa mattina dalla Corte, hanno fatto cenno con ampi gesti delle braccia di riprendere la rotta verso l’isola. I pescherecci non avrebbe quindi forzato nessun blocco, ma al contrario avrebbero seguito le istruzioni delle autorità italiane in mare, che fra l’altro non hanno ostacolato in alcun modo la navigazione verso Lampedusa, raggiunta in due o tre ore. 

Intanto, negli stessi momenti, sul canale 16, dedicato alle emergenze, veniva intimato ai pescherecci di invertire rotta, non avendo l’autorizzazione ad entrare nelle acque territoriali italiane. Peccato che quel messaggio sia stato trasmesso in italiano ed inglese, e che i comandanti dei pescherecci parlassero solo tunisino. Così al momento dello sbarco è scattato l’arresto in flagranza di reato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per i sette marinai, che ora rischiano da 4 a 15 anni di carcere. 

Alcuni nodi restano così irrisolti. Se la Capitaneria di porto di Lampedusa negava via radio l’autorizzazione all’ingresso nelle acque territoriali, perché le motovedette italiane hanno accompagnato senza nessun contrasto i natanti fino all’isola? E perché l’arresto se già alle 15:15 l’Mrcc di Roma era stato informato da Tunisi che si trattava di pescatori che avevano soccorso in mare dei naufraghi e che pertanto, come prescritto dal diritto marittimo internazionale, dovevano essere sbarcati nel porto più vicino e più sicuro. A maggior ragione, essendo buona parte di loro richiedenti asilo politico, per i quali, come ha ricordato la difesa questa mattina, la Carta europea dei diritti fondamentali oltre che la Convenzione di Ginevra e la Convenzione contro la tortura, vietano il respingimento verso paesi a rischio, come in questo caso la Tunisia. E un nuovo documento prodotto dalla difesa potrebbe porre la parola fine alla discussione sull’autenticità delle dichiarazioni dei pescatori, che hanno sempre detto di trovarsi in una battuta di pesca. 

Un documento in arabo sequestrato a bordo del Mortadha, ne autorizza infatti la funzione di nave da accompagnamento della nave madre Karim Allah per la pesca a “ciancialo”, laddove due imbarcazioni più piccole illuminano il fondo del mare mentre una terza raccoglie il pescato in una grande rete. A testimoniare la presenza in mare per motivi di pesca anche un altro pescatore tunisino, che aveva ricevuto assistenza poche ore prima dell’arrivo dei naufraghi, l’esame della cui testimonianza non è stata accettata dalla corte. La sentenza non arriverà prima delle prossime settimane.

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