22 July 2009

Libia: l'Acnur incontra gli eritrei respinti e accusa l'Italia

ROMA, 14 luglio 2009 - A una settimana dalla nostra inchiesta sui rifugiati eritrei respinti in Libia, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) esprime il suo sdegno per quanto accaduto. E conferma l'uso della forza dei nostri militari ai danni di sei rifugiati. Ecco il comunicato stampa dell'agenzia dell'Onu.

"L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Libia ha svolto dei colloqui con le 82 persone che erano state intercettate mercoledì 1 luglio dalla Marina Militare italiana a circa 30 miglia da Lampedusa e trasferite poi su una motovedetta libica per essere ricondotte in Libia. In base a quanto riportato durante i colloqui, non risulta che le autorità italiane a bordo della nave abbiano cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte né tantomeno le motivazioni che le hanno spinte a fuggire dai propri paesi.

Una volta in Libia, il gruppo è stato smistato in centri di detenzione dove l'UNHCR ha avuto l'opportunità di svolgere gli incontri. Fra di loro vi sono 76 cittadini eritrei, di cui 9 donne e almeno 6 bambini. Sulla base delle valutazioni dell'UNHCR relative alla situazione in Eritrea e da quanto dichiarato dalle stesse persone, appare chiaro che un numero significativo di esse risulta essere bisognoso di protezione internazionale.


Nel corso dei colloqui l'UNHCR ha raccolto testimonianze riguardo l'uso della forza da parte dei militari italiani durante il trasbordo sulla motovedetta libica. In base a queste testimonianze sei eritrei avrebbero avuto necessità di cure mediche in seguito ai maltrattamenti. Inoltre, gli stessi individui affermano che i loro effetti personali, fra i quali documenti di vitale importanza, sarebbero stati confiscati dai militari italiani durante le operazioni e non più riconsegnati. Le persone ascoltate dall'UNHCR hanno riferito di aver trascorso quattro giorni in mare prima di essere intercettate e di non aver ricevuto cibo dai militari italiani durante l'operazione durata circa 12 ore.


In considerazione dalla gravità di quanto riportato, l'UNHCR ha inviato una lettera al governo italiano con la richiesta di chiarimenti sul trattamento riservato alle persone respinte in Libia e richiedendo il rispetto della normativa internazionale.
Negli anni passati l'Italia ha salvato migliaia di persone in difficoltà nel Mediterraneo, fornendo assistenza e protezione a chi ne aveva bisogno. Dall'inizio di maggio è stata introdotta la nuova politica dei respingimenti e almeno 900 persone sono state respinte verso altri paesi, principalmente la Libia, nel tentativo di raggiungere l'Italia. L'UNHCR ha espresso forte preoccupazione sull'impatto di questa nuova politica che, in assenza di adeguate garanzie, impedisce l'accesso all'asilo e mina il principio internazionale del non respingimento (non-refoulement)".

Le denunce dell'Acnur sono confermate da una nota stampa del Consiglio italiano dei rifugiati (Cir). Presente in Libia da fine maggio, il Cir informa che:

"33 di queste persone erano già state precedentemente riconosciute rifugiate sotto il mandato delle Nazioni Unite. Tutti gli altri, subito ammessi in vari centri di detenzione in Libia, hanno richiesto all'Unhcr di essere riconosciuti rifugiati. Secondo le dichiarazioni di queste persone, almeno 8 eritrei hanno subito violenza fisica da parte dei militari italiani, al punto che 6 di loro sono stati ricoverati in ospedale a Tripoli. Uno di essi, detenuto nel centro di Zuwarah, ha addirittura riportato ferite alla testa provocate da bastoni elettrici, documentate anche fotograficamente. Non appena i migranti si sono resi conto che sarebbero stati consegnati alle forze libiche hanno opposto resistenza e costretti con la forza al trasbordo. Queste dichiarazioni sono state rilasciate separatamente in diversi centri di detenzione al personale del Cir e dell'Unhcr, operante in Libia. Sempre secondo tali dichiarazioni a tutti sono stati arbitrariamente sequestrati cellulari, documenti personali e denaro"

Ora si faccia chiarezza in Parlamento e in Tribunale sui responsabili dei reati compiuti.