NICOSIA - La guerra civile in Sierra Leone, tra il 1991 e il 2001, si lasciò alle spalle almeno 50.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati. Outhman era uno di loro. Fuggì nel 2000, verso il Senegal, dove riuscì a comprare un passaporto con un visto per il Libano. Un anno dopo approdava con altre 23 persone sulle coste nord dell’isola di Cipro. Outhman è uno dei circa 11.000 richiedenti asilo politico che vivono a Cipro. In trappola. Lo aveva intervistato nel 2006 Sergio Serraino, riuscendo ad entrare nel braccio della prigione centrale di Nicosia dedicata alla detenzione amministrativa dei migranti senza documenti, il famigerato Block 10. A due anni di distanza, siamo riusciti a incontrato nel cortile dell’associazione per i rifugiati Kisa, nella zona greca della capitale cipriota. Dal Block 10 è uscito a maggio 2008. Dopo 39 mesi di detenzione e tre tentativi di rimpatrio non riusciti. La sua domanda d’asilo ha avuto una prima risposta negativa. Il caso pende adesso davanti alla Corte europea dei diritti umani. Lo hanno rimesso in libertà una settimana prima della visita al carcere del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio europeo. Con lui sono usciti tutti quelli che erano dentro il Block 10 da oltre sei mesi. Potrebbe essere il segnale di un cambiamento in uno Stato dove la detenzione amministrativa dei migranti non ha limiti di tempo. Ma intanto Outhman non è più lo stesso.
Gli chiedo di ricordare, ma fa fatica. La memoria ha rimosso gran parte di quei tre anni che lo Stato cipriota gli ha sequestrato alla vita. Anni spersonalizzanti, dolorosi, e interminabili. Poi, man mano che parliamo, la mente ritorna al passato. Outhman dice di aver visto deportare molti potenziali rifugiati. Un congolese della Rdc, nel 2006, di cui ad oggi la famiglia non ha più notizie. Una famiglia di kurdi turchi, padre, madre e cinque figli. E uno srilankese, rimpatriato nonostante la moglie vivesse regolarmente a Cipro. Un capitolo a parte è quello della salute mentale dei detenuti. Outhman ci ritorna più volte. Ne ha visti di uomini piangere come bambini, e perdersi d’animo. Lui stesso più volte ha tentato il suicidio. Dopotutto era l’unico modo per scappare. L’altra opzione era impazzire. Ali l’iraniano, era lucidissimo quando lo arrestarono. Quando, un anno dopo, la famiglia venne a visitarlo, passava il giorno a delirare e a lavarsi le mani, di continuo. Morì un mese dopo il rimpatrio. Un altro iraniano, Sajjad, soffriva di paranoia. Vedeva ovunque complotti contro la sua persona. Era irascibile. Lo portarono all’ospedale psichiatrico di Athalassa, a Nicosia. Non se ne è più saputo niente. Anche Khalid il palestinese, fu ricoverato. Girava nudo per il corridoio e veniva alle mani per la minima ragione. Adesso è stato rilasciato, pare stia meglio. Un altro ragazzo palestinese invece, Mohamed, approfittava di ogni occasione per tagliarsi i polsi. Diceva che non voleva più vivere. Viveva a Cipro sin da ragazzo, senza documenti.
Block 10 è una sezione della prigione centrale di Nicosia. Mi ci reco l’indomani mattina. Riesco ad entrare facilmente, spacciandomi per un amico di C., uno dei detenuti con cui Outhman mi ha messo in contatto telefonicamente. La polizia non fa storie. Entro insieme a un georgiano in visita a un parente. Le celle sono disposte sui lati di un lungo corridoio, chiuso da una porta blindata. Nel corridoio c’è un televisore, i tavoli per la mensa e l’aria condizionata. Le celle sono di due metri per due metri e cinquanta. Con un unico letto a castello. I due materassi distano meno di un metro uno dall’altro. Nelle celle non c’è aria condizionata né riscaldamento. I detenuti sono una cinquantina. Sono liberi di uscire nello stretto corridoio. Nel cortile invece vengono lasciati andare solo una volta al giorno. Per l’ora d’aria. Ogni tanto ricevono visite da Teofani, una suora della parrocchia di Saint Joseph a Larnaca. Porta loro vestiti e recita preghiere insieme ai cristiani. Più raramente passano anche i funzionari dell’Unhcr. Nel Block 10 non si fa niente dalla mattina alla sera.
I poliziotti sono incuriositi dalla mia visita. C. infatti da due settimane rifiuta di incontrare la moglie e i bambini. In segno di protesta. È al Block 10 da sette mesi. Viene dalla Nigeria, e vive a Cipro dal 2001. La sua richiesta d’asilo è stata rigettata lo scorso 16 maggio e adesso non ha i soldi per pagare un avvocato per il ricorso. Ma non è per questo che è arrabbiato col mondo. C. è sposato con una donna filippina che vive qui a Nicosia. Hanno due figli di 5 e 3 anni. E il più grande, due settimane fa, gli ha chiesto perché… Perché sta in prigione? È un uomo cattivo? Oppure è perché non vuole più bene alla mamma? C. non gli ha ancora saputo rispondere.
Cipro dista 70 km dalla Turchia, e 100 km dalla Siria. L'isola è occupata per circa i due terzi della superficie dalla Repubblica di Cipro, che dal primo maggio 2004 fa parte dell'Unione Europea. Il restante territorio, a nord, è occupato dalla Repubblica Turca di Cipro Nord proclamata dopo l'intervento militare turco nel 1974. Sull’isola vivono circa 800.000 abitanti e 170.000 immigrati. Circa 30.000 sono cittadini Ue, 60.000 non comunitari (filippini, pakistani, srilankesi) impiegati nei lavori domestici e nella ristorazione, 20.000 greci del caucaso e circa 50.000 senza documenti, soprattutto siriani e turchi. I richiedenti asilo sono circa 11.000. Sono soprattutto siriani, srilankesi, indiani, pakistani, bangladeshi, iraqeni, palestinesi, iraniani, georgiani. Una cifra esigua, che però fa di Cipro il primo Paese nell’Ue per l’incidenza del numero di richiedenti asilo sul numero di abitanti. Ad oggi i rifugiati riconosciuti sono circa 500, il 95% dei quali iracheni e palestinesi. Nel 2007 il tasso di riconoscimento dei rifugiati è stato dell’1,25%. Uno dei più bassi in Europa. E le espulsioni circa 2.500 l’anno. A snocciolarmi i dati è Cristina Palmas, dell’Unhcr. La incontro sotto un sole cocente, nell’headquarter della UNFICYP, la missione dell’Onu presente a Cipro dal 1964.
La legge sull’asilo risale al 2000. Dal 2002 l’Unhcr ha trasferito tutti i casi al ministero dell’Interno. La legge è buona – sostiene Palmas – ma tuttavia non viene applicata. Il welfare prevede un’assistenza di 500 euro mensili ai richiedenti asilo, ma nel 2007 ne usufruivano soltanto 300 persone su 11.000. I tempi di attesa per il riconoscimento dello status sono di alcuni anni. Nel frattempo i richiedenti asilo possono lavorare soltanto nell’agricoltura. Ogni altro impiego è considerato illegale. Peccato che il settore dell’agricoltura sia in crisi e non necessiti di nuova forza lavoro. I contratti nazionali del settore inoltre non superano i 300 euro mensili, meno dell’assegno sociale, in un paese dove un caffè costa tre euro. Palmas mi fa inoltre notare che, a fronte di 11.000 richiedenti asilo, c’è un unico centro di accoglienza con 43 posti letto, dedicato a donne e nuclei familiari. Il giorno dopo mi reco a visitarlo.
Il centro si trova a quattro chilometri da Kophinou, una novantina di kilometri a sud di Nicosia. Aperto nel 1997 per i gitani, dal 2003 è dedicato all’accoglienza di richiedenti asilo. Due file di container disposti sopra una gittata di cemento in mezzo alle montagne. Il tutto circondato da una recinzione. Ogni container conta tre stanze doppie, ma le strutture sono semivuote. In molti se ne sono andati. All’isolamento di Kophinou preferiscono la precarietà della capitale. Rachel invece è rimasta al campo. È camerunese. Aspetta da due anni una risposta alla sua richiesta d’asilo. Passa le sue giornate in chat, nella sala internet. Lo Stato le paga 80 euro al mese. Le è proibito lavorare, a parte in campagna. A Kophinou mi ha accompagnato Jonathan, in macchina. Prima di andare via mi chiede di fargli una foto contro la recinzione. Siamo in gabbia, scherza. Quattro anni di limbo non gli hanno ancora fatto perdere l’ironia.
Jonathan è uno dei fantasmi di una generazione scomparsa dal Kivu, in Congo (Rdc). Chi non è stato ammazzato se ne è andato, dice. Lui è dovuto fuggire con tutta la famiglia. Lavorava in una ong locale e scriveva come giornalista. La sua discesa agli inferi inizia il 30 ottobre del 1996, nella sua città natale di Goma. L’esercito dei Banyamulenge bombarda i campi profughi a Uvira-Goma -Bukavu. È l’inizio della prima guerra del Congo. Da una parte i militari zairesi dall'altra i ribelli. Lungo l'asse Bukavu-Goma scoppia l'inferno. Il primo giorno di combattimenti, provoca nella sola città di Goma migliaia di vittime. Vengono sepolte in un’unica fossa comune. Jonathan scappa. Prima in Uganda, poi in Kenya. Nel 2004, da Nairobi decolla per la Siria. Da lì, via Hatay, arriva clandestinamente a Istanbul. Inizialmente aveva pensato alla Grecia. Ma poi si convince per Cipro, che è appena entrata nell’Ue. Compra un passaporto con un visto turistico turco ancora valido e prende un aereo per Erçan, l’aeroporto nel nord dell’isola occupata dalla Turchia. Pochi giorni dopo, in quattro, attraversano a piedi, in piena notte, la green line che divide in due Nicosia. La polizia li ferma. Jonathan zoppica. Si è storto la caviglia saltando il muro che separa la zona turca da quella greca. Uno dei poliziotti lo picchia ripetutamente con il manganello sulla caviglia già gonfia e dolorante. Sono immediatamente riaccompagnati dal lato turco della green line e lì abbandonati. Jonathan non riesce a camminare. Decidono di separarsi. Trascinandosi la gamba ferita, qualche ora dopo, riesce lo stesso a scavalcare i rotoli di filo spinato dietro i campetti di calcio. Un connazionale lo incontra per strada, per caso, e lo ospita a casa propria, per un mese, finché non ritorna a camminare e si presenta alla polizia per chiedere asilo.
Sono passati quattro anni da allora. E ancora non è arrivata nessuna risposta. Se almeno mi avessero detto di no, dice Jonathan, mi sarei potuto organizzare diversamente. E invece eccolo qua, sequestrato a se stesso, nel limbo dell’attesa. Vive grazie all’assegno del welfare. L’anno scorso ha fatto arrivare la moglie con un visto per motivi di studio. Ora aspettano un bambino. Un figlio sarà come una cima lanciata ad un naufrago dalla scialuppa di salvataggio, una corda a cui stringersi per andare verso il futuro ed uscire dal vortice del tempo presente. Per non fare la fine di Joao, anche lui congolese, che anche oggi chiede dei suoi documenti, al commesso dell’internet point dell’associazione Kisa. Indossa stivali di gomma verde in piena estate. E la ragione deve averla persa tra le sbarre del Block 10. Finisco di scrivere l’articolo. Di fronte a me, dietro lo schermo di un pc, Durjan sorride. Ha finalmente spedito in Nepal alcune sue foto, per email. È bloccato a Cipro dal 2003. Suo figlio ha nove anni. Vive con la madre a Katmandu. E da un po’ di tempo chiedeva con insistenza di avere delle sue foto. Perché, diceva, dopo cinque anni, non ricordava più faccia avesse suo padre.
Per approfondimenti:
Parlement Européen: Rapport de visite à Chypre