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Entriamo nella tenda per ripararci dalla pioggia e dal freddo. Frappè per tutti. Lo prepara il caporale maggiore sulla stufa. Nescafé, latte e schiuma. Dopo la crisi del 1974, quando la Turchia occupò Cipro, il confine è stato militarizzato. La tensione al tempo salì al punto che il governo greco decise di minare le zone sensibili della frontiera con il vicino asiatico, lungo le acque del fiume Evros. Furono piantati migliaia di ordigni. Mine anti-carro, che saltano con una pressione di 180 chilogrammi, ma anche mine anti-persona, che esplodono soltanto sfiorando una linguetta metallica che spunta dal terreno di pochi centimetri, come mi mostra il capitano Pitsianis. «Sono costruite per mutilare – dice riponendo il metal detector – Colpiscono nel raggio di 5 metri e chi ci monta ha davvero poche speranze di sopravvivere. Attraversare un campo minato senza pestare uno degli ordigni è semplicemente impossibile». La Turchia è a 300 metri, dietro la tenda, oltre gli alberi, nascosta tra la nebbia di dicembre. Di giorno ha la forma delle guglie ottomane della moschea di Selim a Edirne, sopra la collina. Di notte è una striscia di luci lontane sopra i chilometri di buio pesto e umidità della vallata. Trentatré anni dopo la crisi di Cipro, l’esplosivo che doveva proteggere Atene ha distrutto almeno 88 giovani vite. Non erano soldati turchi e non erano armati. Venivano a piedi, dopo aver attraversato le acque del fiume per entrare illegalmente in Grecia. Camminavano di notte per non essere visti dai soldati e non hanno visto le segnalazioni dei campi. Due morti nel 2006, sei nel 2005, sette nel 2004. Il conto dei feriti si è perso. A chi non ha pagato con la vita, il viaggio clandestino è costato le gambe.
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Nel 2002 in Burundi la guerra civile tra hutu e tutsi continua a versare sangue e centinaia di migliaia di famiglie lasciano le proprie case in fuga dal genocidio. Inizia qui la storia di Guma, un gigante di un metro e novanta, fisico atletico, 34 anni e un cappellino rosso della Nike. Quando viene a sapere dell’omicidio del padre è già troppo tardi. La famiglia è fuggita insieme a centinaia di migliaia di profughi. Rintracciarli è impossibile. Non gli resta che fuggire a sua volta.
Da Dar es-Salam, in Tanzania, riesce a salpare con due compagni di viaggio su un cargo svizzero della Msc, Mediterranean Ship Company, una delle maggiori compagnie navali internazionali per il trasporto di container. I patti sono chiari. Un mese di lavoro a bordo per 250 dollari. Fine corsa a Istanbul. Nella capitale turca trovare un passaggio per Atene basta il passaparola tra un doner kebab e un caffé ad Aksaray.
Primo gennaio 2003. Fari abbaglianti. Un furgoncino sfreccia nella notte sull’autostrada a tre corsie che collega Istanbul a Edirne. In cabina accanto ai baffi del conducente siedono altri due turchi. Nascosti nel vano, Guma e i due compagni di viaggio aspettano di vedere la Grecia. Dopo qualche chilometro su una strada sterrata le porte si aprono su un bosco di nebbia. Si continua a piedi. Un piccolo gommone li aspetta sul fiume. Dopo la traversata, i turchi spiegano che da una parte si va in Bulgaria e dall’altra in Grecia. Devono solo scavalcare la rete e cercare i binari del treno. Il loro lavoro è finito. Guma telefona a Istanbul alla persona a cui ha lasciato in deposito i 250 dollari, dicendo che sono arrivati e che può pagare il passeur.
Risalita la riva, il gruppo non vede nessun binario del treno. Fa freddo e con la nebbia non si vede oltre un metro, salvo alcune luci rosse in lontananza. A un centinaio di metri dall’argine, una rete di ferro e filo spinato segue il corso del fiume. Deve essere quello il confine della Grecia. Deve essere quella la rete che i turchi hanno detto di scavalcare, là dietro ci devono essere i binari da seguire. Iniziano ad arrampicarsi eccitati per avere ormai raggiunto la meta tanto ambita. Ma dopo pochi passi succede qualcosa d’imprevisto. Un lampo di luce e un rumore sordo. A Guma vola via il cappello. Si mette la mano sul collo, ha del sangue. Inizia a chiamare i compagni, nessuno risponde, si mette a gridare. Ancora non ha capito che cosa sia stato, non ha sentito il rumore, solo il forte spostamento d’aria, forse un colpo di fucile. Si butta a terra. L’adrenalina e il freddo non gli fanno sentire il dolore. Ha le gambe ferite, schegge di metallo nel collo, nel braccio e nel petto. Piange e chiama gli amici tutta la notte, finché l’alba gli svela la verità. Al suo lato giacciono morti i due amici, uno con le gambe tagliate di netto in una pozza di sangue, l’altro aperto fino al petto, sventrato saltando in pieno sull’esplosivo. Guma continua a piangere. I militari non possono non aver sentito l’esplosione, eppure i soccorsi ancora non arrivano. Arrivano invece i corvi neri che si avvicinano alle carni delle vittime. Nel disperato dormiveglia, morso dal gelo, Guma grida per scacciare gli uccelli. Prega il suo dio: ho lasciato Bujumbura per fuggire dai problemi, non darmene di nuovi in questa patria. Passa un’intera giornata e finalmente verso le sei di sera una macchina di soldati spunta oltre la collina. Guma grida a pieni polmoni. La squadra si avvicina al di là della griglia. Dicono di non muoversi e di aspettare i soccorsi. Poi se ne vanno. Guma prova a strisciare, come un serpente, ma dopo pochi metri è esausto. Si sente svenire.
I soccorsi ritornano solo dopo due ore. Si avvicinano con i metal detector, lo caricano sulla barella. Una vampata di dolore inizia a bruciargli le carni lacerate. Lo caricano sull’auto. Tre ore dopo è operato d’urgenza al 496, l’ospedale militare di Didymoteicho. Mentre gli strappano i vestiti dalla carne viva impazzisce dal dolore. È ormai in fin di vita. Non ha più pressione, non riescono a trovargli una vena per la flebo. Poi l’anestesia. Quando riapre gli occhi è nella stanza 226; non dimenticherà mai quel numero, urla dal dolore, piange e trema. Di aver perso la gamba destra, dal ginocchio in giù, se ne accorge soltanto dopo alcuni giorni di letto e morfina. Intanto la polizia gli ha consegnato un mandato d’espulsione, ma un avvocato riesce a fargli depositare una domanda d’asilo politico. Un agente piantona la camera da letto giorno e notte e gli impedisce di uscire senza autorizzazione. Il ricovero dura sette mesi. Ogni giorno riceve visite dalla gente di Didymoteicho. Molti sono rifugiati greci provenienti dalla Turchia e si sentono solidali con il giovane burundese. Nella 226 ci sono altri due ragazzi del Rwanda. Uno ha subito l’amputazione di entrambe le gambe, congelatesi in una disperata marcia nella neve lungo i valichi del confine bulgaro con la Grecia. Dopo le dimissioni parte per Atene con la gamba nuova. Ma la protesi non è buona, fa fatica a camminare e ha continui dolori e infezioni. Ne cambia altre due prima di trovarsi bene. Intanto ottiene l’asilo politico. La sua è una delle tre domande accettate sulle 8.178 richieste presentate nel 2003 in Grecia, Paese che vanta il tasso di protezione umanitaria più basso al mondo pur avendo un numero di richieste d’asilo tra i meno rilevanti dell’Unione europea. Intanto la sua storia fa il giro del mondo. Viene ospitato in programmi televisivi della Bbc, di Al-Jazeera e Mega tv. Su Mega tv, il 3, 4 e 5 novembre 2006 è ospitato insieme ai ministri greci della Difesa e della Salute, con altri due ragazzi marocchini mutilati dalle mine di Evros, Redouan e Samir. Di fronte ai microfoni, il ministro della Difesa Vasilios Michaloliakos s’impegna a pagare una gamba nuova ai ragazzi; un mese dopo Guma continua ad aspettare. Domani ha appuntamento in una palestra con una squadra di pallavolo. Vuole farsi fare una protesi sportiva. Per lui la qualità della vita dipende dalla qualità della protesi. Vuole tornare a fare sport. La rabbia e il dolore li ha chiusi in un barattolo di vetro insieme alle schegge di ferro che gli hanno estratto dalle braccia e dalle gambe. «Souvenirs dalla Grecia» gli ha scritto con ironia mama Vivi. Ma un’altra scheggia è nel collo, conficcata nell’osso del cranio fino a sfiorare il cervello. I medici non se la sono sentita di operare. Troppo rischioso. «Ogni giorno posso partire!», scherza Guma. Nei suoi occhi coraggio e fragilità, di chi della vita ha conosciuto il valore e la fuggevolezza. Finisce il caffé da McDonald, sorride.
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