I corpi dei morti in fila sul molo di Lampedusa
Secondo le Nazioni Unite, la guerra in Siria ha causato 4 milioni di sfollati interni e 2 milioni di rifugiati. I rifugiati vivono tutti nei campi profughi allestiti nei paesi confinanti con la Siria: in Libano, Turchia, Iraq, Giordania ed Egitto. Ma la guerra va avanti da ormai tre anni e una parte di essi ha deciso di tentare di raggiungere l’Europa per chiedere asilo politico. Finora sono una percentuale sparuta: 7.500 su oltre 6milioni, sì e no lo 0,1%. Per loro, come per eritrei e somali, il mare è l’unica via d’uscita. E in alcuni casi l’unica via di salvezza. Alle spalle si lasciano la guerra, ma nelle ambasciate europee i loro passaporti sono carta straccia. Così non resta che affidarsi alle uniche reti del contrabbando capaci di far viaggiare migliaia di persone verso le coste europee anche senza passaporto. E quelle reti si trovano in Libia (nelle città di Zuwara, Tripoli e Misrata) e in Egitto nella provincia di Alessandria. E dire che quelle stesse reti fino ad un anno fa sembravano aver smesso completamente di lavorare. Sì, perché gli sbarchi a Lampedusa nel 2012 erano praticamente cessati.
Dopo il record segnato nel 2011 con 63mila persone sbarcate via mare senza passaporto, nell’anno della guerra in Libia e della rivoluzione in Tunisia, gli sbarchi erano pressoché scomparsi, complice la crisi dell’Euro e la debolezza del contrabbando libico e tunisino. Fino ad allora su Lampedusa insistevano due rotte: una libica e una tunisina. Quella libica smise di funzionare nell’estate del 2011, con la caduta del regime di Gheddafi e la conseguente scomparsa dalla scena degli uomini forti del contrabbando libico più legati al regime. Allo stesso modo la rotta tunisina si esaurì nell’autunno di quell’anno per tre motivi: l’esaurimento del bacino di giovani tunisini disposti ad imbarcarsi, dopo la partenza di ben 25mila di loro, la fermezza dei rimpatri collettivi e infine, forse più importante, l’accordo di libera circolazione firmato dalla Tunisia con la Libia che ha di fatto trasformato la Libia nella principale meta di emigrazione per i tunisini. Il risultato fu il crollo degli sbarchi.
Nel 2012 arrivarono in Italia appena13mila persone via mare, gran parte dei quali navigando su un'altra rotta: quella che dalla Turchia e dalla Grecia porta dritti sulle coste pugliesi e calabresi. Lampedusa sembrava un ricordo, c'erano così pochi arrivi che venne chiuso persino il centro di accoglienza dell’isola.
Non fu quella la prima volta che la rotta libica per Lampedusa chiudeva i battenti. Era già successo nel 2009, l'anno dei respingimenti. E allora forse per capire meglio cosa sta succedendo adesso, vale la pena fare un passo indietro.
Tra il 2003 e il 2008 sono sbarcate in Italia circa 120mila persone salpate dalla Libia. A una media di 20mila all'anno. Il 2008 fu l'anno record, con 36mila arrivi. Il business delle traversate era in mano ai libici e valeva un centinaio di milioni di euro l'anno. A chiudere un occhio sul tutto non erano soltanto i funzionari di polizia libici adeguatamente corrotti, bensì tutto il regime. Compreso Gheddafi che contava così di alzare la posta in gioco sul tavolo del negoziato con l'Italia e con l'Unione europea.
E infatti per convincerlo a porre fine agli sbarchi, a Gheddafi venne dato tutto quello che chiedeva: lo stop all'embargo, la riabilitazione della sua immagine a livello internazionale, gli investimenti, e persino un risarcimento di 5 miliardi di dollari per i crimini di guerra commessi dalle truppe italiane durante il colonialismo. Fino a quando, una volta ratificato il trattato di amicizia italo libico nel 2009, il Colonnello acconsentì a chiudere definitivamente la frontiera. L'operazione richiese soltanto poche settimane.
L'Italia iniziò a respingere in Libia i naufraghi intercettati nel Canale di Sicilia (pratica poi condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani nel febbraio 2012). E la Libia tagliò la testa al contrabbando con una serie di arresti mirati. Così, tra il 2009 e il 2010 gli sbarchi dalla Libia cessarono del tutto, salvo piccoli gruppi imbarcati da contrabbandieri locali.
Oggi quegli stessi gruppi si sono riorganizzati, grazie soprattutto alla forte domanda di mobilità dei profughi di guerra siriani. Eppure a guardarla bene, la situazione è completamente diversa dagli anni passati. E ancora una volta lo dicono i numeri. Da un paio d’anni gli sbarchi sono in forte diminuzione in Spagna e anche in Grecia, le altre due frontiere calde dell’Europa sul Mediterraneo. E mentre calano gli arrivi, aumentano a dismisura le partenze di chi scappa dalla crisi dell'Euro.
Duecentoquindicimila emigrati, perlopiù sudamericani, hanno lasciato la Spagna soltanto nel 2012. Dalla Grecia, almeno duecentomila lavoratori albanesi sono tornati a Tirana negli ultimi cinque anni. E in Italia avviene lo stesso, sebbene le cifre del fenomeno non siano ancora chiarissime. Secondo l'Istat il numero degli emigrati che hanno lasciato l'Italia nel 2012 per tornare nei propri paesi o per cercare un lavoro altrove, varierebbe tra i 40mila e gli 800mila.
Sono cifre da capogiro, altro che la rotta libica o quella siriana. Eccola la nuova rotta. È la via del ritorno, è la via della fuga dall’Europa in crisi.
Ma l’Europa, ancora una volta, non è capace di cogliere in tempo i segnali della storia. La diminuzione della pressione migratoria sulle sue frontiere sarebbe infatti un’occasione irripetibile per sperimentare una progressiva semplificazione dei visti Schengen e permettere a quelle poche decine di migliaia di giovani che ogni anno rischiano la vita nelle traversate, di viaggiare comodamente in aereo, con un regolare passaporto.
Dopotutto l’Europa ha già fatto scelte coraggiose con i paesi dell’Est, liberalizzando i visti con l’Albania e annettendo nell’Unione paesi come la Polonia, la Slovenia, la Romania, la Bulgaria, da dove ormai proviene una buona metà degli emigranti presenti in Italia, e che di fatto vivono in regime di semi o totale libertà di circolazione.
Soltanto con scelte coraggiose come queste, l’Europa potrà togliersi dalla coscienza il macigno della responsabilità politica di quegli almeno 19.142 morti alle sue porte. Non è l’accoglienza il problema di oggi. È il diritto alla mobilità.
Questo articolo è stato pubblicato in Italia da Redattore Sociale