30 August 2011

Un assassino al Cie di Ponte Galeria

È l'inverno del 1993 e per le strade di Milano si combatte una guerra tra bande per il controllo del mercato della droga. Protagonisti di questa nuova stagione di violenza sono gruppi di sbandati tunisini. Gente che vive ai margini della società, spesso in condizioni disagiate, ai quali fino a poco tempo prima quel mercato era inaccessibile. Il 3 novembre un tunisino di 24 anni viene ritrovato in una pozza di sangue con una coltellata sotto il cuore in un campo di via Caio Mario, dove dormiva in un carrello per il trasporto di cavalli. Un mese dopo, il 17 dicembre, un altro tunisino viene trovato senza vita in un appartamento al secondo piano di via Morgantini. Il movente dei due omicidi è lo stesso: regolamento di conti tra bande di spacciatori. Gli inquirenti passano al setaccio la zona. E nel giro di qualche settimana arrestano due ragazzi. Due tunisini, di 23 e 27 anni. Saranno entrambi condannati per omicidio. Diciotto anni dopo, un signore di 45 anni nasconde i suoi documenti in un borsone nel magazzino del centro di identificazione e espulsione di Roma, perché nessuno li veda. E si presenta ai suoi compagni sotto mentite spoglie. Ha paura che lo riconoscano. È l'assassino di via Morgantini.

Ormai è un uomo invecchiato e ammalato. Un tumore all'intestino lo ha reso invalido. Gli restano pochi anni di vita. Il resto l'hanno fatto le 9 carceri dove ha passato gli ultimi vent'anni. Sulmona compresa. Nel carcere che detiene il record di suicidi dei detenuti, Murad ci ha passato 4 anni e 8 mesi, compreso quel 19 aprile 2003 in cui la direttrice Armida Miserere si sparò un colpo alla testa.

L'hanno portato dentro al Cie lo scorso 8 luglio. I carabinieri si presentarono direttamente alla porta della Iaf, l'Isola dell'amore fraterno, la casa d'accoglienza per detenuti in pena alternativa sull'Ardeatina a Roma. A Ponte Galeria non si fida di nessuno. Dentro ci sono parecchi tunisini, compresi alcuni dello stesso quartiere di Tunisi del tipo che ammazzò. Meglio non rischiare di risvegliare sopiti spiriti vendicativi.

Della galera sembra non portare rancore. Ne parla come di un'esperienza di vita. “In carcere ho plasmato la mia personalità. Ero un ragazzo, frequentavo brutta gente, ho sbagliato ed era giusto che pagassi. Adesso sono un altro uomo, ho altri valori”. Il suo atteggiamento sembra quasi remissivo. Adesso vuole soltanto la libertà. Si è stancato di vedere il ferro. Che siano le sbarre del carcere o quelle del Cie.

E non trova giusto fare una pena aggiuntiva. Possibile che in 17 anni di carcere non l'abbiano identificato? Perché deve buttare altri 18 mesi della propria vita, lui che ha già pagato tanto?

Rispetto al rimpatrio, in realtà non gli dà grande peso. Chiaro che preferirebbe l'Italia. Qui potrebbe godere di cure migliori per il tumore e poi in fondo questo ormai è il suo paese. Quando arrivò nel lontano 1987 aveva soltanto 21 anni, e adesso ne ha 45, anche se la maggior parte del tempo l'ha passato in galera. Tuttavia la prospettiva del rimpatrio non lo spaventa per niente. “Per me l'importante è tornare libero. Qui o in Tunisia. Ma libero”.

Storie come la sua mettono in crisi anche i più fervidi sostenitori dell'antirazzismo. Perché i "cattivi" non li vuole nessuno. Eppure non possiamo far finta di niente. Vero è che la maggior parte degli ex detenuti che finiscono nei Cie dal carcere, hanno alle spalle condannucole per spaccio di stupefacenti, che poi spesso vuol dire droghe leggere. Insomma niente di socialmente pericoloso, ma soltanto la conseguenza di una legge molto repressiva come lo è la Fini-Giovanardi sulle droghe.

Ma quando si presentano casi come questo? Se è giusto pagare con il carcere per un reato commesso, è altrettanto giusto essere stigmatizzato a vita per quel precedente penale, per grave che sia? E ancora, è giusto infliggere una doppia pena a chi dopo vent'anni di carcere, anche per un reato così grave, deve rinunciare ancora a 18 mesi della propria libertà? Se doveva essere espulso, perché non è stato identificato prima?


PS Murad è un nome di fantasia, tutto il resto è corrispondente al vero. Per tutelare la sua privacy, abbiamo atteso che fosse rilasciato dal Cie di Roma, da dove è evaso insieme a altre trenta persone durante la rivolta dello scorso 8 agosto