09 August 2011

Dalla guerra al Cie. Walid, un algerino a Ponte Galeria


Boubacar l'ha capito col tempo. Che il paradiso non esiste. E che i legami a forza di tirarli si spezzano. E i giorni scorsi lo ha ripetuto fino alla noia al suo nuovo compagno di cella. Si chiama Walid, anche lui è algerino, ma ha soltanto 21 anni d'età. Più Boubacar lo guarda più gli sembra di rivedere se stesso all'inizio della sua avventura italiana, quando arrivò a Palermo, ancora diciassettenne. Era il lontanissimo 1984. A quel tempo si viaggiava senza problemi sul traghetto di linea da Tunisi. Bastava avere in tasca un passaporto. Trent'anni dopo, è tutta un'altra storia. E a Walid è toccato partire senza biglietto e al rischio della vita. Era a Tripoli a lavorare quando la guerra l'ha sorpreso senza preavviso. A Lampedusa è sbarcato due mesi fa. Ma a differenza degli altri profughi di guerra (nigeriani, eritrei, maliani, somali, pakistani...), lui e tutti gli arabi a bordo del peschereccio sono stati trasferiti nel giro di pochi giorni al centro di identificazione e espulsione (Cie) di Roma. Egiziani e algerini. Pronti per essere impacchettati e rispediti al mittente. Walid voleva fuggire. Come avevano tentato gli altri algerini la notte della rivolta, il 29 luglio. Ma è stato Boubacar a convincerlo del contrario. Con la storia del paradiso e dei legami. Di solito non si immischia. Ma quando l'ha visto crollare in lacrime e ha sentito la sua confessione, si è sentito in dovere di dargli un consiglio sincero, come se davanti a se avesse il figlio che non ha mai avuto.

Quel giorno, in mezzo ai singhiozzi, Walid gli ha raccontato che faccia ha la morte nel mare Mediterraneo. Perché lui l'ha vista da vicino. E da quel giorno non riesce a togliersi quelle immagini dalla mente. Sono le immagini dei corpi riversi in mare, sulla rotta fra Tripoli e Lampedusa. Erano in acque internazionali, lontano dai soccorsi. La barca che li precedeva si era rovesciata, probabilmente nella notte. I cadaveri galleggiavano tutto attorno. Decine e decine. Quelli delle donne e dei bambini sono i più difficili da dimenticare.

Quel giorno Boubacar l'ha convinto a lasciar perdere l'idea della fuga. E a tornarsene a casa. Che l'Europa è sempre là, ma della sua famiglia ha bisogno adesso. Per ritrovare la pace, dopo aver visto negli occhi la morte. Prima per le strade di Tripoli, poi nel Mediterraneo e infine nelle gabbie del Cie di Roma. Dove la gente continua a tagliarsi e a ingoiare ferri e lamette, per non farsi rimpatriare. E dove molti continuano a prendere psicofarmaci come se fossero noccioline, per non dover pensare alla situazione in cui si ritrovano.

Traumi del genere richiederebbero ascolto e cura. A maggior ragione se la vittima è un ragazzo di soli 21 anni. Ma a quanto pare, l'Italia dei muri preferisce la terapia della detenzione a oltranza nei Cie. Forse perché trova inconcepibile che i ragazzi dell'altra riva possano avere una fragilità e una sensibilità. Dopotutto farlo significherebbe riconoscere loro un briciolo di umanità. Un nome. E tutto questo sarebbe sovversivo rispetto alla definizione degli illegali.

Anche per questo non troverete il nome di Walid sui comunicati stampa del ministero dell'Interno. Ne pubblicano uno a settimana. L'ultimo parla di 111 espulsi nella prima settimana di agosto. Numeri, numeri, numeri. Solo numeri. Di nomi non ce ne sono. Perché i reclusi nei Cie non devono avere un nome e una storia.

Che cosa penserebbe la gente se sapesse che abbiamo trattato come il peggiore dei criminali, un ragazzo di vent'anni, ancora sotto shock per la avere assistito alla guerra in Libia e a una strage in mare?

E che cosa penserebbe la gente se sapesse che Boubacar, il signore algerino che ha convinto Walid a rientrare dalla sua famiglia, sta per essere espulso dopo aver passato 30 anni in Italia? Lui che là fuori ha una moglie dalla quale aspetta un figlio?

Lei è pure italiana, ma ciononostante i documenti per lui non sono mai riusciti a ottenerli. Tutta colpa di quel precedente penale. Una presunta rapina (lui si dichiara ancora oggi innocente) che gli costò due anni di carcere minorile. Sì perché quando Boubacar arrivò a Palermo dall'Algeria, di anni ne aveva soltanto 17 e le compagnie che si scelse, a suo dire non erano delle migliori. Sono passati trent'anni da allora, e quello rimane il suo unico precedente penale. Perché nonostante l'esperienza del carcere, che dice essere stata devastante per la sua crescita, Boubacar nel frattempo ha trovato la sua strada. Un lavoro, una donna che l'ama. Eppure non è mai riuscito a uscire dalla clandestinità.

A mettere a posto i documenti ci ha provato mille volte. L'ultima con la sanatoria del 2009, come badante. Ma ogni volta quella sentenza passata in giudicato gli sbarra la strada. E adesso è la moglie a non poterne più. Lei che nell'ultimo anno ha perso entrambi i genitori, adesso non sopporta di dover stare pure senza il marito. Tanto più adesso che da dieci giorni le vietano inspiegabilmente i colloqui con lui. Forse l'autorizzazione è rimasta ferma sulla scrivania di qualche funzionario in ferie. Ma vaglielo a spiegare a una donna che non riabbraccia il marito da un mese.

Ad ogni modo lei la sua scelta l'ha fatta. E lui la condivide in pieno. Lasciare l'Italia, al più presto. Appena questo incubo sarà finito. Vendere tutto e comprare una casa in Algeria. Addio controlli dei documenti. Addio razzismo. Addio abusi di potere solo perché hai un documento scaduto. Entrambi non ne possono più. E noi, per quanto ancora saremo disposti a sopportare tutto questo?


Ps per rispettare la privacy dei nostri testimoni, e per motivi di sicurezza, abbiamo usato due nomi di fantasia