Qualcuno ci dica se tutto questo è normale. Se per andare a trovare sua sorella a Livorno un ragazzo di vent'anni debba aprirsi una coscia con una lametta di ferro e scavare nella carne fino a tagliare in profondità, perché soltanto così non lo rispediranno in Tunisia. L'ennesima storia di dolore e di umiliazione arriva dal centro di identificazione e espulsione (Cie) di Roma. Il protagonista si chiama Khalil. È un ragazzo tunisino di Jbel Ahmer, un sobborgo popolare delle periferie di Tunisi, arrivato a Lampedusa quattro mesi fa e da lì finito al Cie di Ponte Galeria. Sono venuti a prenderli stanotte. Il giovedì è giorno di espulsioni. Quando sono entrati erano le 3:40 del mattino. Diciotto agenti, in borghese. Uno per uno hanno tirato fuori dalle gabbie sei tunisini. Poi sono arrivati da lui. Quando li ha visti si è arrampicato sullo scaffale sopra i letti, dove appoggiano i vestiti. E ha iniziato a implorarli. Di non farlo partire. Che ancora aveva i segni dei tagli che si è fatto le ultime due volte che hanno provato a portarlo all'aeroporto. Di lasciarlo prima guarire. Ma gli agenti hanno insistito. Poche storie. "Se c'è il sangue ti lasciamo, altrimenti vieni via lo stesso". Il regolamento è chiaro. Lui allora ha tirato fuori una lametta da barba, l'ha affondata nella carne sopra il ginocchio e ha tagliato in profondità. Alla vista del sangue, gli agenti della squadra sono usciti dalla cella e sono tornati negli uffici, con passo calmo, come se niente fosse, più preoccupati dei preparativi del secondo giro di espulsioni delle 7:00, altri cinque algerini, che non delle condizioni di Khalil.
A chiamare il dottore ci hanno pensato gli altri detenuti a forza di grida e battiture sui ferri. Dall'infermeria sono arrivati subito dopo, ma Khalil non è voluto uscire. Aveva paura che fosse tutta una trappola. Che dopo la medicazione avrebbe trovato la polizia pronta a portarlo via. Il che la dice lunga sul clima che si respira a Ponte Galeria. E allora gli hanno disinfettato la ferita in stanza. E soltanto cinque ore dopo, intorno alle nove, sono riusciti a convincerlo di farsi portare in infermeria.
Un suo compagno di cella ha contato i punti che gli hanno messo: venti. È la terza volta in quattro mesi che Khalil si taglia. La regola l'ha imparata alla svelta dagli altri reclusi: il sangue allontana il rimpatrio meglio di qualsiasi avvocato.
Forse Khalil spera così di arrivare alla scadenza dei sei mesi. E spera di essere rilasciato per scadenza termini e di poter finalmente raggiungere la sorella che vive da una vita a Livorno e che lo può ospitare e che lo può aiutare a cercarsi un lavoro e a ricominciare una vita normale. Lui che su questo viaggio ha investito tutto. E che oltre ad averci rimesso già quattro mesi di libertà, ci ha perso pure due amici, annegati al largo di Zarzis insieme ad altri 9 ragazzi del suo stesso quartiere, Jbel Ahmer, la notte del 29 marzo.
Khalil, che non parla una parola d'italiano, ancora non sa che con la nuova legge nel Cie ci dovrà stare 18 mesi e non più 6. E noi non sappiamo che cosa potrà fare quando alla fine del sesto mese gli sarà comunicata la proroga.