Viaggio a Benghazi, 17 marzo 2011
Il cratere è largo tre metri e tutto intorno la pista è cosparsa di pietre. Poco distante, quel che resta della carlinga di un aereo civile continua a bruciare. In mezzo al fumo nero si riesce ancora a leggere distintamente Air Libya. È quel che resta dell'aereo colpito dalle bombe di Gheddafi, sganciate questa mattina sull'aeroporto internazionale di Benina, a 20 chilometri dalla città di Benghazi. Proprio così, mentre a Washington il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite discuteva la risoluzione sulla no fly zone, il Colonnello ha ordinato di bombardare Benghazi. È il secondo bombardamento in due giorni. Mercoledì mattina un aereo aveva attaccato l'aeroporto mancando di poco il bersaglio. Oggi invece l'hanno preso in pieno. Anche perché stavolta di aerei ne hanno mandati tre. Tre vecchi Mirage che oltre a Benina hanno sganciato altre bombe sopra la caserma Muaskar 36, a sud di Benghazi, dove si trova un importante deposito di munizioni dell'armata popolare degli insorti. Fortunatamente non ci sono stati feriti né morti e la pista di decollo non sembra compromessa da quello che abbiamo potuto constatare di persona.
La nostra visita all'aeroporto dura pochi minuti. Il colonnello Salah El Fituri infatti ci invita senza tante formalità a infilarci di nuovo in macchina e sgommare via prima che possa tornare l'aviazione del colonnello. Potrebbero attaccare di nuovo in qualsiasi momento. Prima di lasciare la zona del bombardamento però Marai mi chiede di fargli una foto. Noncurante del pericolo, mentre intorno la contraerea continua a sparare, si mette in posa dietro al cratere tenendo il kalashnikov in una mano mentre con l'altra fa il segno della vittoria. Ha i suoi buoni motivi per festeggiare Marai, perché due dei tre Mirage di Gheddafi che hanno bombardato la città, sono stati abbattuti. Ed è un bel colpo per il morale delle truppe. Per la prima volta infatti la contraerea degli insorti è riuscita a colpire il bersaglio. E per la prima volta ci sono le prove. Sono sparse in un campo coltivato nella campagna a sud di Benghazi, e sono i resti del Mirage abbattuto. Marai ci accompagna a vederli. Lui è uno dei volontari in armi dell'esercito popolare della rivoluzione libica. Ha 36 anni, indossa mimetica, bandana rossa e kalashnikov. Ma non fa parte dell'esercito. É un vecchio rigattiere improvvisato soldato per il bene della moglie e dei due bimbi di due anni e otto mesi, che lo aspettano a casa a Benina, a cinque minuti di macchina dall'aeroporto bombardato oggi da Gheddafi. Intorno all'aeroporto, si è creato uno strano ingorgo di macchine, che procedono a rilento lungo le stradine di campagna. Sono centinaia di ragazzi, venuti a vedere quel che resta del primo aereo abbattuto dell'aviazione di Gheddafi.
Marai mi spiega che è un Mirage. Per metà è esploso e bruciato. Del pilota non c'è nessuna traccia, anche perché la testa dell'aereo è completamente distrutta. Sulla coda qualcuno ha scritto con il fango “Gibu al tayara gibu hatta al dabbaba”, ovvero: “portate gli aerei e portate pure i carri armati”. Della serie: non abbiamo paura. Poco sopra invece hanno scritto con lo spray la data dell'abbattimento. 17.3.2011. Oggi è l'anniversario del primo mese della rivoluzione. I ragazzi fotografano con il cellulare l'aereo. E fanno a gara a smontare i pezzi di quello che resta, per portare con sé una qualche reliquia. Un pezzo del radiatore, la ruota, un tubo del telaio.
Probabilmente i tre aerei erano partiti da Sirte. Un altro sarebbe stato abbattuto, secondo l'armata degli insorti, nella zona di Ganfuda, a una cinquantina di chilometri da Benghazi. E il terzo sarebbe riuscito a fuggire indenne. Il bombardamento, secondo il colonnello El Fituri sarebbe la risposta all'attacco aereo sferrato in mattinata dagli insorti contro una colonna di carri armati che da Zilla stava raggiungendo il fronte di Ijdabiya, dove da tre giorni rivoluzionari e lealisti combattono per il controllo della città. Aerei che hanno misteriosamente iniziato a operare quattro giorni fa. All'inizio nessuno ci credeva. Ma oggi abbiamo personalmente visto in azione un elicottero, ci sono conferme dell'avvenuto bombardamento da parte degli insorti dell'aeroporto di Sirte e la conferma – fuori microfono – dataci da parte di un membro influente del consiglio nazionale temporaneo di Benghazi secondo cui alcuni Stati starebbero aiutando militarmente gli insorti, fornendo loro armamenti pesanti, munizioni e aiuto logistico. Un supporto senza il quale difficilmente avrebbero potuto fare arrivare le armi a Misratah, dove si è aperto un altro fronte, e bombardare le retrovie di Gheddafi a Ijdabiya, dove la situazione tre giorni fa sembrava irrimediabilmente compromessa.
Intanto da Ijdabiya arrivano anche oggi notizie drammatiche. Secondo testimoni oculari nell'ospedale della città si troverebbero in questo momento i corpi senza vita di almeno 22 ragazzi uccisi negli scontri con le truppe di Gheddafi, che nella notte di ieri avrebbero accerchiato la città su tre lati, appoggiati dagli incessanti e continui bombardamenti dell'aviazione del regime. A confermarcelo è il dottor Adil Eljamal, primario del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Jala, a Benghazi, dove negli ultimi tre giorni sono stati trasferiti decine di feriti dal fronte di Ijdabiya. Tutti feriti sotto i bombardamenti. Dieci di loro non ce l'hanno fatta. Il più piccolo è un bambino di quattro anni, ferito mortalmente alla testa dalla scheggia di una bomba esplosa vicino casa. Numeri che si aggiungono al macabro conteggio dei morti che in questo ospedale non è mai stato così alto. Soltanto nei primi cinque giorni della rivoluzione, tra il 17 e il 20 febbraio, qui si sono contati 250 morti durante gli scontri tra i ragazzi del movimento e le milizie di Gheddafi. Sono quei morti a ispirare ancora oggi i ragazzi che hanno preso le armi contro Gheddafi e che non vedono nessuna altra forma di resistenza pacifica al massacro ordinato dal Colonnello.