OUAGADOUGOU – Vista da Niagho l’Italia ha la forma di un pomodoro. E la città di Foggia è la terra delle opportunità. Dove basta avere buone braccia per guadagnarsi un futuro. Partono da questo piccolo villaggio del Burkina Faso molti dei burkinabé emigrati in Italia. Negli ultimi dieci anni ne sono partiti almeno 700, su una popolazione di poche migliaia di abitanti. C’è chi è partito in aereo e chi è arrivato via mare. Ma sono tutti passati dalle campagne del sud Italia, impiegati in nero come braccianti stagionali. Indietro però hanno portato un’immagine completamente diversa da quella a cui siamo abituati a pensare. Quelli che la stampa italiana ha ribattezzato come i nuovi schiavi, in patria sono diventati piccoli eroi. Simboli di riscatto e benessere. Li chiamano “gli italiani”. In un Paese dove una giornata di lavoro è pagata poco più di un euro, sono loro la dimostrazione pratica, per quanto paradossale, che il sogno europeo funziona.
Arrivo a Niagho in motorino, lungo la polverosa strada rossa di terra battuta, evitando mucche al pascolo, grossi camion e tanti ciclisti. All’ombra dell’albero, sul retro del chiosco di legno al centro del villaggio, incontro una ventina di ragazzi. Sediamo sulle panchine scassate sorseggiando uno dopo l’altro sacchettini di acqua ghiacciata e granite rosse di bissap a base di fiori di ibisco. Sono una generazione frustrata. L’economia tradizionale, fatta di agricoltura e allevamenti, è più che sufficiente per il sostentamento. Ma non produce moneta. E loro invece hanno voglia di godersi la vita, di costruire, di consumare, di fare. Esattamente come ogni italiano. Sono giovani, si sentono sprecati. Brahim Compaoré è uno di loro. Vuole partire a tutti i costi. Anche in mare. Gli dico che rischia la vita. Risponde che la rischia anche qua, ad esempio se si ammala e lo portano in ospedale, visto che non ha i soldi per curarsi. Parliamo delle condizioni di lavoro a Foggia, mostro loro le foto di Rosarno e delle baracche dove vivono i braccianti africani in Calabria durante la raccolta delle arance. Non si scandalizzano minimamente. Al contrario. Piuttosto che stare qui con le mani in mano, sono pronti a affrontare qualsiasi sacrificio. Pochi giorni prima sono partiti tre ragazzi per il deserto, diretti in Libia e poi a Lampedusa. Non c’è niente da fare. Hanno le prove che l’Italia funziona.
Nascono come funghi. Una accanto all’altra. Da tre anni a questa parte. Sono le case degli emigrati. Costruite in bozze di cemento, con infissi in ferro e tetti in lamiera. Alcune sono addirittura intonacate. Sorgono a fianco delle case costruite in modo tradizionale, con mattoni di argilla e tetti di paglia. La struttura è la stessa della casa tradizionale per la famiglia allargata: muro di cinta, e terra-tetto costruiti lungo i quattro lati del quadrilatero perimetrale, con un grande cortile interno, al centro del quale sorge la cucina a legna. Nell’immaginario, il cemento è diventato il nuovo simbolo della ricchezza, e quindi del potere. Una casa tradizionale si costruisce con 100 euro. Un appartamento vale anche 3.000 euro. Cifre inimmaginabili per i contadini della zona. Qui un bracciante guadagna in media un euro per una giornata di lavoro. Ma queste sono terre avvezze alla fatica e facili agli addii.
In queste campagne ingiallite, i contadini parlano bissa. Una lingua coniata da secoli di emigrazioni e transumanze. Per tutto il Novecento, i bissa del Burkina Faso meridionale sono emigrati a migliaia in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di ananas, cacao e caffé, e in Ghana nelle miniere d’oro, e in Nigeria per pascolare e vendere le proprie mandrie. L’Italia è arrivata dopo. Ma adesso è il desiderio di un’intera generazione. Lo sanno in tutto il Burkina Faso. Al punto che nella capitale, Ouagadougou, chiamano per scherno “italiani” gli abitanti del triangolo tra Niagho, Beguedo e Garango, nella provincia di Tenkodogo. “Sono contadini – dicono – per quello che lavorano forte con i pomodori”.
Ma in questo piccolo villaggio, gli emigrati non hanno costruito soltanto case per ostentare la nuova ricchezza e dimenticare i tanti sacrifici fatti in Italia. Hanno fatto di più. Si sono auto-tassati per dare una nuova sede al commissariato di polizia, ristrutturare le due scuole e regalare delle divise di calcio ai bambini. Nella vicina cittadina di Beguedo hanno addirittura costruito un ospedale e portato due ambulanze donate dalla Associazione Volontaria Sesto San Giovanni, di Milano. Segno che non si sono dimenticati della propria gente.
Ne é convinto il re del villaggio. Un ex funzionario dello Stato in pensione, formatosi alla scuola coranica e al liceo dei missionari cattolici per poi laurearsi in filosofia a Ouagadougou. È membro della famiglia presidenziale dei Compaoré, che a Niagho regna da più di trenta generazioni, fin dalla fondazione dell’impero dei Mossi, che la tradizione vuole essere stato fondato nel dodicesimo secolo dalla principessa Yennenga, figlia del re di Gambaga, e dal cacciatore di elefanti Rialé. Il re ci riceve con molta accoglienza. Indossa un boubou blu. Per stringergli la mano mi devo inginocchiare in rispetto delle usanze. “Dobbiamo ringraziare l’Italia – dice con autorevolezza, mentre sorseggiamo insieme a dei bambini una bevanda tradizionale a base di latte di capra -. Per aver accolto così bene i nostri figli e per aver dato loro l’opportunità di lavorare e far crescere il villaggio”. L’unica cosa che non si spiega è perché molti di quelli che sono partiti non abbiamo più fatto ritorno, anche a distanza di anni. A ritornare infatti sono solo quelli che negli anni passati hanno usufruito delle sanatorie. Per chi è ancora senza documenti, non resta che continuare a spremere sudore nelle nostre campagne per pochi euro, cambiando discorso quando da casa gli chiedono notizie dalla terra dei pomodori.
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Nascono come funghi. Una accanto all’altra. Da tre anni a questa parte. Sono le case degli emigrati. Costruite in bozze di cemento, con infissi in ferro e tetti in lamiera. Alcune sono addirittura intonacate. Sorgono a fianco delle case costruite in modo tradizionale, con mattoni di argilla e tetti di paglia. La struttura è la stessa della casa tradizionale per la famiglia allargata: muro di cinta, e terra-tetto costruiti lungo i quattro lati del quadrilatero perimetrale, con un grande cortile interno, al centro del quale sorge la cucina a legna. Nell’immaginario, il cemento è diventato il nuovo simbolo della ricchezza, e quindi del potere. Una casa tradizionale si costruisce con 100 euro. Un appartamento vale anche 3.000 euro. Cifre inimmaginabili per i contadini della zona. Qui un bracciante guadagna in media un euro per una giornata di lavoro. Ma queste sono terre avvezze alla fatica e facili agli addii.
In queste campagne ingiallite, i contadini parlano bissa. Una lingua coniata da secoli di emigrazioni e transumanze. Per tutto il Novecento, i bissa del Burkina Faso meridionale sono emigrati a migliaia in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di ananas, cacao e caffé, e in Ghana nelle miniere d’oro, e in Nigeria per pascolare e vendere le proprie mandrie. L’Italia è arrivata dopo. Ma adesso è il desiderio di un’intera generazione. Lo sanno in tutto il Burkina Faso. Al punto che nella capitale, Ouagadougou, chiamano per scherno “italiani” gli abitanti del triangolo tra Niagho, Beguedo e Garango, nella provincia di Tenkodogo. “Sono contadini – dicono – per quello che lavorano forte con i pomodori”.
Ma in questo piccolo villaggio, gli emigrati non hanno costruito soltanto case per ostentare la nuova ricchezza e dimenticare i tanti sacrifici fatti in Italia. Hanno fatto di più. Si sono auto-tassati per dare una nuova sede al commissariato di polizia, ristrutturare le due scuole e regalare delle divise di calcio ai bambini. Nella vicina cittadina di Beguedo hanno addirittura costruito un ospedale e portato due ambulanze donate dalla Associazione Volontaria Sesto San Giovanni, di Milano. Segno che non si sono dimenticati della propria gente.
Ne é convinto il re del villaggio. Un ex funzionario dello Stato in pensione, formatosi alla scuola coranica e al liceo dei missionari cattolici per poi laurearsi in filosofia a Ouagadougou. È membro della famiglia presidenziale dei Compaoré, che a Niagho regna da più di trenta generazioni, fin dalla fondazione dell’impero dei Mossi, che la tradizione vuole essere stato fondato nel dodicesimo secolo dalla principessa Yennenga, figlia del re di Gambaga, e dal cacciatore di elefanti Rialé. Il re ci riceve con molta accoglienza. Indossa un boubou blu. Per stringergli la mano mi devo inginocchiare in rispetto delle usanze. “Dobbiamo ringraziare l’Italia – dice con autorevolezza, mentre sorseggiamo insieme a dei bambini una bevanda tradizionale a base di latte di capra -. Per aver accolto così bene i nostri figli e per aver dato loro l’opportunità di lavorare e far crescere il villaggio”. L’unica cosa che non si spiega è perché molti di quelli che sono partiti non abbiamo più fatto ritorno, anche a distanza di anni. A ritornare infatti sono solo quelli che negli anni passati hanno usufruito delle sanatorie. Per chi è ancora senza documenti, non resta che continuare a spremere sudore nelle nostre campagne per pochi euro, cambiando discorso quando da casa gli chiedono notizie dalla terra dei pomodori.
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