02 August 2009

Vittime di tratta tra i respinti in Libia. Parlano le donne nigeriane

E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale? ho detto io.
Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.
Così una sera mi ha portato al posto di lavoro.
Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più.
Mi hanno dato il vestito. Era solo un paio di mutande.

ROMA, 2 agosto 2009 – Sono belle le nuove schiave nigeriane. Alte, nere, statuarie. E in vendita. Lavorano ormai anche nell’angolo più sperduto d’Italia, ovunque ci sia una strada, ovunque esista un marciapiede. Costrette a prostituirsi da organizzazioni criminali senza scrupoli, ogni giorno, per anni, fino al pagamento del debito contratto per portarle in Europa, dai trenta ai quarantamila euro. Migliaia di ragazze di Lagos e Benin City. Reclutate nei ceti più disagiati e raggirate con false promesse da organizzazioni criminali transnazionali che sulle loro prestazioni sessuali arrivano a lucrare dai 5.000 ai 7.000 euro al mese per ciascuna. Alcune di loro sono arrivate in Italia via mare. Nel 2007 sulle coste siciliane di ragazze nigeriane ne erano sbarcate soltanto 166. Ma nei primi otto mesi del 2008 il numero degli arrivi è schizzato a 1.128. Quante di loro siano finite nei circuiti dello sfruttamento della prostituzione non è dato saperlo. Ma è sicuro che una parte di loro fa quella fine. Lo sostiene una recente ricerca della cooperativa Be Free, basata su decine di interviste effettuate a donne nigeriane detenute nel centro di identificazione e espulsione di Ponte Galeria a Roma.

Nessuno mi ha obbligato a partire.
Nessuno mi ci ha costretto.
Nella trappola mi ci sono messa da sola, per mia libera scelta.
Ma non era questo che mi aspettavo quando sono partita.
Questa situazione.
E nessuna via d’uscita.

Alcune viaggiano accompagnate da sospetti brothers. Altre sono apparentemente sole. Ma c’è qualcuno che le aspetta fuori dai centri di accoglienza. Per portarle nelle case delle maman, e farle cominciare a lavorare quanto prima. Il lavoro spesso lo conoscono già. Perchè molte di loro - sostiene Be Free - sono costrette a prostituirsi già in Libia, nei bordelli di Tripoli. Piccole case chiuse dove le ragazze vengono avviate alla prostituzione dagli intermediari nigeriani, spesso all’insaputa della maman che le aspetta in Italia. Bordelli di cui avevamo sentito parlare durante il nostro viaggio in Libia, e della cui esistenza adesso troviamo la triste conferma. Qui le ragazze non possono rifiutarsi di avere rapporti sessuali e devono consegnare tutti i soldi ai loro sfruttatori. Se oppongono resistenza vengono picchiate e torturate. Spesso rimangano incinte e sono costrette a ricorrere ad aborti clandestini, procurati mediante percosse e cocktail di medicinali da ingerire.

Le cose stavano così.
Non avevo documenti.
Non avevo soldi.
Non avevo un posto dove scappare.
Avevo il terrore della polizia, e l’unica parola che sapevo di italiano era vaffanculo.
In più avevo il debito da pagare. Trentamila euro.
E si sa cosa succede alle ragazze che non pagano.
O che non vogliono lavorare.

Racconta una ragazza intervistata da Be Free: “In questa casa eravamo più di 30 ragazze tutte di origine nigeriana, tutte costrette a prostituirci in attesa di essere poi mandate in Italia. Sono stata là per circa quattro mesi, dovendo andare a letto con una media di cinque uomini al giorno. Le tariffe erano fisse, un dinar e mezzo (un euro) con il preservativo (che doveva essere portato dal cliente), due dinar senza preservativo; i soldi venivano presi da noi che poi li dovevamo dare per intero a H. Era sempre lui che ci portava i clienti e che ci diceva cosa dovessimo fare. Noi non potevamo rifiutarci di avere rapporti non protetti, se lo facevamo venivamo prese a calci e picchiate violentemente con catene ed oggetti vari. Le violenze erano comunque all’ordine del giorno…”

Itohan non voleva più prostituirsi.
Aveva detto che lei non pagava e non avrebbe mai più pagato il debito.
Aveva vent’anni.
Il suo cadavere l’hanno trovato mesi dopo alla periferia di Torino, nel capannone abbandonato di una fabbrica ormai chiusa da anni. A trovarlo è stato il cane di un pensionato, durante la passeggiata serale. Stava lì putrefatto. Era tutto mangiato dai topi.

L’Italia ha un sistema di protezione per le vittime di tratta all'avanguardia in Europa e nel mondo. L’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione prevede infatti il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale alle donne che decidono di uscire dal giro. Tra il 2000 e il 2006 le donne che l’hanno ottenuto sono state 5.673. Tuttavia quel meccanismo è oggi a rischio. Almeno per le vittime di tratta che viaggiano sulle barche dirette a Lampedusa, che da maggio l'Italia respinge sistematicamente in Libia. Dalla Libia vengono di norma rimpatriate in Nigeria, dove rischiano di tornare nelle mani dei trafficanti che sul loro corpo hanno investito migliaia di euro.

Dopo, io mi sono raccontata che è stato per via di Itohan che ho smesso di dire di no. Perché avevo paura. Perché volevo restare viva. Perché non volevo assolutamente fare la sua fine. Ma ad essere onesta fino in fondo, così onesta da diventare spietata, devo dire che no, io avevo già deciso di fare quel che bisognava fare. Perché avevo sentito la voce di mia madre. E avevo deciso che dal fondo di quella trappola potevo almeno fare qualcosa di buono per lei, per aiutarla, sostituendomi a quel marito che l’aveva abbandonata. Che ci aveva abbandonato tutti. Io sarei diventata mio padre.
A costo di dire sì.



Le testimonianze in corsivo sono tratte dal libro “Le ragazze di Benin City, di Isoke Aikpitanyi e Laura Maragnani, che vi invitiamo caldamente a leggere

Scarica il rapporto sulle donne nigeriane al Cie di Roma, della Cooperativa Be Free