TRIPOLI – “Caro, hai saputo della tragedia? 75 eritrei sono morti... ANSA, che Dio li benedica! Buona notte”. Con questo sms, il 20 agosto alle 23:04 un amico eritreo a Tripoli mi informava dell’ultima strage nel Mediterraneo. Lui su quella barca aveva un’amica. Una ragazza di nome Adada, il cui nome compare nella lista dei morti. Era una cara amica. Per questo si era interessato dall’inizio della sorte di quel gommone. E si è fatto un’idea precisa: “Non è stato un incidente in mare, è stato un omicidio”. Lo scrive in una mail spedita a mente fredda, due giorni dopo, dopo aver controllato le notizie sui siti in lingua inglese. “Nell’era della tecnologia una barca così grande non può sfuggire agli occhi d’aquila che pattugliano ogni angolo di questo mondo”. I primi giorni dopo la partenza, avvenuta all’alba del 28 luglio, tra gli eritrei a Tripoli si diffuse la notizia che il gommone era arrivato a Malta. I dallala, come sono chiamati in tigrigno gli intermediari, ovvero gli organizzatori dei viaggi, avevano detto di aver ricevuto una telefonata col satellitare la sera del 29 luglio, in cui i passeggeri dicevano di vedere le luci di Malta. Ma che qualcosa era andato storto lo capirono subito. Selamawi – lo chiameremo con questo pseudonimo – aspettò invano una telefonata dai centri di detenzione di Malta. Passava ore negli internet point della capitale libica per cercare notizie sugli sbarchi e sui respingimenti.
Fino a metà agosto, quando iniziò a circolare un’altra versione dei fatti. Nella comunità degli eritrei in Libia c’era chi diceva che il gommone avesse lanciato un sos e che metà dei passeggeri fossero morti, altri invece dicevano che il gommone era stato respinto in Libia dagli italiani. Ogni verifica però era impossibile perché il telefono satellitare era scarico. In questo rincorrersi di voci e ricostruzioni, la notizia della strage il 20 agosto ha seminato il panico tra la comunità eritrea. “Gli stessi intermediari sono terrorizzati”. Nessuno riesce a farsi un’idea di come il gommone possa essere stato abbandonato in mezzo al mare per tre settimane. Nemmeno a Tripoli esiste una lista delle vittime. Le partenze sono tenute segrete, per motivi di sicurezza. A volte chi parte non informa nemmeno gli amici fidati e i parenti. E i dallala non vogliono che in giro si facciano troppe domande sui loro affari. Inoltre il periodo non è dei migliori. Il ramadan è appena iniziato e i poliziotti approfittano delle retate per arrotondare lo stipendio. “In Libia i rifugiati eritrei sono usati come moneta di scambio. Ci valutano in dollari americani – dice Selamawi -. I poliziotti cercano sempre soldi. Ti sequestrano quello che hai quando ti arrestano, e poi si fanno pagare per lasciarti andare. Il prezzo di un’evasione va dai 500 ai 900 dollari”.
Eppure l’Italia sostiene che la Libia sia in grado di accogliere i rifugiati del Corno d’Africa che si imbarcano dalle sue coste. Forse il premier Berlusconi dovrebbe approfittare della visita a Tripoli il prossimo 30 agosto per incontrare i rifugiati eritrei detenuti dal 2006 a Misratah. Oppure i rifugiati somali detenuti a Benghazi, sei dei quali sono stati recentemente uccisi dalla polizia durante una sommossa. I rifugiati detenuti a Benghazi non sapevano niente della strage in mare dei 73 eritrei. Li ho raggiunti telefonicamente. “Che tragedia!” è il loro commento a caldo. Dello sbarco dei 57 eritrei ieri pomeriggio invece dicono “Finalmente una buona notizia!”. Già perché il sogno di tutti è andar via. E ottenere il riconoscimento dell’asilo politico per rifarsi una vita, anche a costo di attraversare nel Mediterraneo sfidando la morte. Selamawi ne è certo: “Nessuno sa esattamente quando, ma tutti qui aspettano il giorno in cui tutte queste sofferenze avranno fine e tornerà la libertà!"