02 March 2007

Febbraio 2007

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65 le vittime dell’immigrazione clandestina a febbraio. 44 annegati sulle rotte per la Grecia e 19 dispersi nel Canale di Sicilia. Ancora deportazioni di massa in Libia e in Marocco, mentre alle Canarie riprendono i pattugliamenti di Frontex. 8.153 le vittime censite dal 1988

ROMA – Da Kusadasi l’Europa si vede a occhio nudo e ha la forma delle montagne dell’isola di Samos. Da quella che fu la patria di Pitagora l’Asia si raggiunge in due ore seduti su un comodo traghetto. Bastano venti euro e la carta d’identità, ormai non serve nemmeno più il passaporto. Ma sulla rotta inversa l’Europa è molto più lontana. Il viaggio può durare anni e costare migliaia di euro, a volte la vita. Il 17 febbraio sono morti in 25, partiti dalla Somalia, entrati illegalmente in Turchia dalla Siria, e quindi cancellati da un’onda a meno di un miglio dalla soglia d’ingresso del vecchio continente. Una rotta maledetta quella per Samos. Due settimane prima, il 5 febbraio, erano annegati in 19. E altri 7 erano morti appena il 18 gennaio. La dinamica è sempre la stessa. I tre naufragi sono stati causati dal mare in tempesta. Perché ormai è nelle notti in tempesta che barche e gommoni prendono il largo. Dopotutto con il mare mosso non ci sono controlli. L’anno è appena iniziato ma i morti dell’Egeo sono già 51. Erano stati 73 in tutto il 2006. Ma dal 2001 ad oggi le vittime delle rotte greche sono almeno 503, tra cui 248 dispersi in mare.

La pista turca. La Grecia è da anni una porta sull’Europa, via Istanbul. Solo nei primi 9 mesi del 2006 Atene ha arrestato più di 23.000 persone perché prive di un visto d’ingresso. Dalla Turchia passano i profughi iracheni e afgani. Basta attraversare le montagne innevate della Turchia orientale. L’ultima notizia di un clandestino morto assiderato su questi valichi risale al 2004, ma stando alle testimonianze di chi il viaggio lo ha fatto, ogni escursione conterebbe i suoi morti. Nel 2002 vennero ritrovate addirittura 19 vittime congelate tra le nevi dopo una tempesta. Nove erano bambini. Ma ad Istanbul, si vedono anche africani, sempre di più in realtà. Chiedono un visto per uno dei paesi del Golfo, e da lì la Turchia la raggiungono in pochi giorni e a buon mercato. E forse la Grecia era la meta finale anche dei 107 somali annegati il 15 febbraio su una barca di fortuna diretta in Yemen.

Frontiere minate. Le rotte turche per l’Europa non passano solo dal mare. La maggior parte degli harrag viaggiano nascosti a decine nei camion da Istanbul ad Adirne, al confine con la Grecia. Da lì basta attraversare il fiume Evros su un gommone e continuare a piedi fino al luogo stabilito per l’appuntamento con il secondo camionista, di solito greco, per il tratto fino ad Atene. Da Patrasso poi, imbarcarsi di nascosto sui ferry per l’Italia è un gioco da ragazzi, ma non esente da pericoli. Da anni si continua a morire nascosti nei camion, le ultime 44 vittime in un incidente in Turchia nel maggio 2006, ma anche annegati nelle acque dell’Evros o soffocati nei container in partenza per l’Italia, come i 2 di dicembre ad Ancona. Inoltre la frontiera tra Turchia e Grecia è minata. Solo per piccoli tratti, ma nessuno dei migranti ne è informato. Atene sta sminando a ritmi serrati gli ordigni antiuomo. Ma intanto le vittime degli ultimi anni sono già 88.

Sul versante Italia. Continuano gli sbarchi a Lampedusa. Il 9 febbraio sono arrivati in 321 su una nave di 10 metri. E il 21 ne sono arrivati altri 33, soccorsi al largo dell’isola dopo 5 giorni alla deriva. A bordo anche una donna marocchina e le due figlie di 8 e 12 anni. Nella traversata 19 di loro sono morti di stenti. I loro corpi sono stati consegnati al mare insieme a una preghiera e a una lacrima. Le vittime del Canale di Sicilia sono 1.929. Il naufragio più grave fu quello del Natale 1996. Allora 286 passeggeri finirono in fondo al mare con il relitto della nave. Undici anni dopo il governo italiano ha finalmente annunciato di aver trovato i fondi per il recupero delle salme.

Il tempo stringe. Parte dalla Libia la maggior parte dei migranti clandestini diretti in Sicilia. All’inizio di febbraio Tripoli ha dato un ultimatum agli harrag. Per atterrare a Tripoli dal primo marzo servirà un visto di ingresso anche per tutti i cittadini dei paesi arabi e africani. Gli stranieri senza un contratto di lavoro devono lasciare la Libia entro fine febbraio. A marzo potrebbero scattare retate e deportazioni collettive su vasta scala. I primi due mesi del 2007 ne sembrano la prova generale. Dal primo gennaio al 17 febbraio 3.747 stranieri sono stati arrestati e 816 espulsi. Lo riferisce l’agenzia di stato Jana, che però non specifica se i migranti siano stati espulsi in aereo o abbandonati in mezzo al deserto, al confine meridionale. Il trattamento riservato dal Paese di Qaddafi ai migranti è noto da anni. Arresti arbitrari, abusi, deportazioni collettive e inesistenza del diritto d’asilo sono state documentate prima dalla Missione tecnica dell’Unione europea in Libia nel 2004, e poi da Human Rights Watch e Afvic nel 2006. Ma nella mera contabilità degli sbarchi, i numeri di arresti e espulsioni non possono che essere accolti come “buoni frutti” dal ministro degli interni italiano Giuliano Amato.

Il club dei gendarmi. Dopo la conferenza di Tripoli a novembre, la Libia si sta guadagnando un posto d’onore tra i gendarmi d’Europa. Siederà presto a pari merito con il Marocco, l’Algeria, la Tunisia e la Turchia, ma anche con la Mauritania e il Senegal. Il lavoro da fare è oneroso. Chiudere le porose frontiere mediterranee. Meglio sarebbe usare i guanti di velluto, ma in fondo l’Europa non può chiedere troppo a certi Paesi. Così nessuno si inquieta se Rabat continua a ordinare retate per conto di Madrid nei quartieri popolari di Casablanca e Rabat. Cento gli arresti a Dar el Baidà (Casablanca) la notte tra il 30 e il 31 gennaio. Tutti deportati alla frontiera algerina, a Oujda. Abbandonati in una zona semidesertica tra due fuochi. I soldati marocchini da un lato e gli algerini dall’altro. A Natale erano stati deportati più di 400 giovani subsahariani. Sugli autobus diretti al confine erano finiti anche 11 bambini, di cui uno disabile, e decine di donne. 6 vennero stuprate, due dagli agenti marocchini e dai soldati algerini. Una donna incinta al sesto mese perse il bambino. Sull’elenco dei deportati c’erano anche 10 rifugiati riconosciuti dall’Alto commissariato delle Nazioni unite di Rabat e 60 richiedenti asilo. I loro documenti sono stati stracciati dagli agenti. Valgono meno del colore negro della pelle. Uno dei deportati è morto il 21 febbraio per un’insufficienza renale. La situazione al confine è insostenibile e la presenza di più di 1.000 deportati nelle baracche di Maghnia, la prima città algerina oltre confine, fa temere nuove deportazioni di massa, stavolta dall’Algeria verso Tin Zawaten, frontiera malese, in pieno deserto del Sahara. E’ la politica della patata bollente. I clandestini non li vuole nessuno. E se non li vuole l’Europa tantomeno li vuole l’Africa.

La compagnia delle Indie. Soccorsi in mare al largo della Mauritania il 4 febbraio, i 372 passeggeri del “Marine I” hanno dovuto aspettare otto giorni in mare, stremati, prima che Nouakchott accettasse di far attraccare la nave nel porto di Nouadhibou, al confine con il Sahara occidentale. La nave, partita con tutta probabilità dalla Guinea o dalla Costa d’Avorio, era diretta alle isole Canarie. A bordo quasi tutti asiatici, 305 indiani, 22 birmani e 10 dello Sri Lanka. Il permesso a procedere con i soccorsi è arrivato solo dopo l’atterraggio dei 4 aerei spagnoli che serviranno a rimpatriare i passeggeri.

Una nuova Hera. Intanto è ripresa la missione di Frontex sulle rotte per le Canarie. Il nuovo pattugliamento congiunto si chiama Hera III ed è partito il 15 febbraio. Partecipano Spagna, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Germania e Italia. Esperti inviati a Las Palmas per intervistare gli sbarcati e stabilirne l’esatta provenienza. Aerei e navi a incrociare le acque dell’Atlantico. L’Italia partecipa con la nave Dattilo CP 903 della Guardia costiera italiana e con un aereo Atr 42 della Guardia di finanza. L’obiettivo è bloccare in mare le piroghe e costringerle a fare inversione di rotta.

C'Hera una volta. Hera II si era conclusa il 15 dicembre del 2006, dopo 4 mesi di attività: 57 barche intercettate e 3.887 passeggeri respinti verso la Costa africana, a fronte di 14.572 giovani sbarcati alle Canarie su 246 piroghe nello stesso periodo. Una missione costosa (3,5 milioni di euro) e non esente da rischi. Almeno 2 delle piroghe respinte, una dagli spagnoli in Mauritania e l’altra da Frontex in Senegal, avevano visto morire di stenti metà dei passeggeri prima che le barche potessero riguadagnare la costa. Il bilancio provvisorio è di 32 morti, 50 dispersi, e decine di piroghe che - lo dice la Guardia costiera italiana - per evitare i pattugliamenti aeronavali navigano fino a 300 km dalla costa africana, con tutti i rischi di una rotta più lunga e in pieno oceano.