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Sul luogo della strage sono state deposte una decina di corone di fiori. Per terra ci sono ancora i vetri rotti della sartoria. Sul muro del negozio sotto sequestro, hanno incollato le foto delle vittime. Scorrendo con le dita la parete intonacata, i polpastrelli vanno a infilarsi nei fori lasciati dai proiettili sul lato sinistro della porta. Alla ferocia dell’attentato non corrisponde nessun coinvolgimento delle vittime in attività criminali. Nessuno degli uccisi aveva precedenti penali. Era gente coi calli sulle mani. “Very innocent people” ripete in lacrime ai giornalisti chi li conosceva di persona. Avvezzi a lavorare duro sotto il caporalato che all’alba di ogni giorno arruola centinaia di lavoratori lungo i 27 chilometri della Domitiana che attraversano Castel Volturno. Sulla lista dei morti non c’è nessun uomo della mafia nigeriana, che a pochi chilometri gestisce la piazza dello spaccio all’ex hotel Zagarella e schiavizza le ragazze africane costrette a prostituirsi sotto i lampioni. C’è chi pensa alla pista del racket. Chi ipotizza un avvertimento del Sistema alla mafia nigeriana. E chi invece parla di un gruppo di pochi latitanti cocainomani e armati che a suon di morti cercano di farsi largo nel controllo del territorio. Sarebbe loro la firma dei 16 omicidi commessi nel casertano negli ultimi cinque mesi. Uno dei presunti killer è stato arrestato stamattina. Maroni ha promesso l’invio di 400 uomini delle forze dell’ordine e detto che presto apriranno altri 10 centri di identificazione e espulsione. Gli immigrati approvano. Ma qualcuno già teme che tutto finisca per colpire soltanto i lavoratori senza permesso di soggiorno, con controlli dei documenti e fogli di via.
Termine corsa Castel Volturno
Nessuno conosce il numero esatto di immigrati residenti a Castel Volturno. Gli iscritti all’anagrafe del Comune, che conta 22.000 abitanti, sono poco più di 2.000, soprattutto nigeriani. Ma gli immigrati senza documenti sono almeno 10.000. C’è chi parla addirittura di 20.000 persone distribuite nelle varie frazioni, da Pescopagano a Ischitella. Sono in maggior parte ghanesi. Quasi tutti arrivati con gli sbarchi a Lampedusa. Da anni questa città, come tutta la zona dell’agro aversano, è la discarica dell’umanità prodotta lungo le frontiere dalla fabbrica della clandestinità. Un meccanismo rodato che ad ogni sbarco fa di cittadini stranieri degli esseri umani illegali, clandestini. È la storia di Francis, di Benjamin, di Steven, di Daniel. All’American Palace non c’è una persona che non conosca l’oasi di Dirkou nel deserto del Niger, le prigioni di Sabha in Libia, il porto di Zuwarah e il centro d’accoglienza di Lampedusa. La maggior parte ha ricevuto un diniego alla richiesta d’asilo. Altri invece sono stati respinti in frontiera. Come Benjamin, che nel 2004 venne rilasciato dal campo di Crotone con altre 79 persone lo stesso giorno in cui era stato trasferito da Lampedusa. Con in mano un foglio di via e senza mai essere stato ascoltato dalla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Steven mi accompagna in uno degli appartamenti dell’American Palace. Il palazzo era abitato negli anni Settanta dai soldati americani di stanza nelle basi militari in Campania. Alla loro partenza venne occupato da famiglie italiane sfollate dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. E quindi dagli immigrati. Ci vivono circa duecento persone. Sui balconi sono allineate le pance delle parabole. C’è l’elettricità, ma l’acqua scarseggia. Si cucina con la bombola del gas. In un appartamento di 80 metri quadri vivono una decina di persone nelle quattro camere da letto. Il canone è di 550 euro al mese. Ma anche 50-60 euro a testa sono tante quando una giornata di lavoro è pagata 20 euro. Benjamin fa il muratore. In Ghana scolpiva il legno. Steven invece lavora nel giardinaggio, e a seconda della stagione si sposta per la raccolta dei pomodori a Foggia o per quella delle arance a Rosarno. Molti di loro hanno collezionato provvedimenti di espulsione e fogli di via. Ogni mattina, alle cinque, si mettono ai lati della Domitiana, lungo gli incroci (carrefour) dove passano i caporali a reclutare operai alla giornata. Non sempre si lavora. E quei pochi soldi che si guadagnano bastano giusto per l’alimentazione, l’affitto e qualcosa da mandare a casa. Eh sì perché in Ghana continuano ad aspettare. Ed è difficile spiegare le ragioni di un fallimento nella terra dell’eldorado. “Mia moglie non mi vuole credere – dice Benjamin -, dice che non le voglio più bene e non voglio farla venire in Europa”. L’ha lasciata quattro anni fa insieme a due bambini di nove e sette anni. Di tornare, a mani vuote, non se ne parla nemmeno. Sarebbe una vergogna. E un ricongiungimento familiare è impossibile per un immigrato senza documenti.
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La sicurezza degli altri
I commissariati di polizia spesso rifiuterebbero di raccogliere le denunce di chi non ha i documenti in regola. È successo poche settimane fa – secondo una testimonianza raccolta dall’ex-Canapificio – ad Angel, una donna sola con una bambina, picchiata a sangue dal proprietario di casa. È successo un anno fa a Daniel Neti, ghanese, classe 1968. Era il luglio 2007. Stava tornando a piedi a casa, intorno alle 22:00, quando fu avvicinato da tre italiani, in macchina. Una delle tante rapine che subiscono gli africani in questa zona. Daniel si difese con le mani. Loro gli puntarono una pistola addosso. E spararono. La coscia sinistra è tappezzata dalle cicatrici dei proiettili. Gli avevano spappolato il femore. Da un anno fa avanti e indietro dall’ospedale. Adesso riesce a camminare meglio. Ma il ginocchio fa ancora male. Ma quello che gli fa più male è che quando è andato dalla polizia per la denuncia non lo hanno fatto deporre. Non aveva i documenti. Non riesce a toglierselo dalla testa. “Siamo in Europa, come è possibile – mi chiede - che ti sparano e la polizia non fa niente per indagare?” Anche lui è arrivato in Italia su un barcone partito dalla Libia, nel 2002. Il benvenuto lo aveva ricevuto un anno dopo. Quando la polizia era venuta a arrestarlo all’ospedale di Andria, dove era stato ricoverato con la compagna in seguito a un incidente. Ordine di espulsione non ottemperato. E guida senza patente. Venne rilasciato solo dopo cinque giorni. La donna morì dieci mesi dopo.
Daniel almeno lo può raccontare. Anche Moussa Munkaila, nigerino, venne colpito alle gambe, nella vicina Giugliano, tre anni fa. Ma morì dissanguato poche ore dopo, in ospedale. Pochi mesi dopo Ibrahim Diop, ambulante 24enne, morì accoltellato dai suoi rapinatori, a Napoli. Il presidente dei nigeriani in Campania Teddy Egonwman invece l’ha scampata per un soffio, dopo la raffica di mitra scaricata contro la sua villetta lo scorso 18 agosto. E altri proiettili sono stati sparati lo scorso agosto contro il condominio dei ghanesi American palace, da due ragazzi su un motorino, fortunatamente senza ferire nessuno. La vita non ha lo stesso valore per tutti. Tantomeno in una terra violenta come questa.