RAGUSA, 28 maggio 2009 – “Sono lieto di annunciare che il centro di Lampedusa è sostanzialmente vuoto”. Così il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha annunciato la fine degli sbarchi, o quasi. Dall’inizio di maggio sono soltanto poche centinaia le persone intercettate nelle acque italiane: una trentina tra tunisini e algerini sulle coste cagliaritane, dove è stato ripescato anche un cadavere; una settantina di kurdi arrivati a bordo di due imbarcazioni sulle coste di Lecce e Crotone; e poi oltre un centinaio di migranti tunisini e sub-sahariani giunti a Lampedusa e nella Sicilia orientale. Davvero siamo alla fine della stagione degli sbarchi? Così in anticipo sulla bella stagione?
A Zuwarah sono partiti i pattugliamenti delle tre motovedette italiane, affidate al comando libico. Soltanto la scorsa settimana sono stati arrestati altri 400 viaggiatori. Ma la vera notizia è un’altra. Ed è relativa all’arresto di alcuni organizzatori delle traversate. Tutti libici, secondo quanto dichiarato dal ministero degli Interni libico. È il segnale che la Libia fa sul serio. Lo si direbbe anche dall’accordo per il pattugliamento della frontiera sud appena siglato con il Niger. Oltre che dalla disponibilità a firmare un accordo di sede con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) a Tripoli. Ma siamo sicuri che vada tutto bene?
Di certo non ne è sicuro l’avvocato Anton Giulio Lana, membro del Direttivo dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, che proprio oggi ha inoltrato ufficialmente la lettera di denuncia di violazione della Convenzione europea dei diritti umani alla Corte di Strasburgo, per conto dei suoi 24 assistiti, potenziali rifugiati respinti a inizio maggio e attualmente detenuti in Libia. “Tredici di loro - spiega l’avvocato - provenivano dall'Eritrea e undici dalla Somalia, quindi avevano tutti diritto a chiedere l'asilo politico”. L’articolo 4 del IV protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, vieta i respingimenti collettivi senza preventivo accertamento dell'identità. E l'articolo 3 della stessa Carta vieta il respingimento di persone verso paesi di transito dove possono essere soggetti a trattamenti disumani, come la Libia, o verso i paesi d'origine da cui i profughi sono fuggiti. E questo è il punto.
Certo, la creazione di un sistema d’asilo in Libia può essere salutato soltanto in modo positivo, come pure la sperimentazione di progetti di reinsediamento, che permettano ai rifugiati di viaggiare in aereo verso l’Europa, anziché rischiando la vita in mare. E tuttavia l’Italia e l’Europa non possono scaricarsi dagli obblighi del diritto internazionale, che impone la protezione dei rifugiati politici, a prescindere dalle leggi sull’immigrazione.
Maroni però sembra non vedere il problema. Lunedì scorso, riferendo in Senato, ha garantito che “l’iniziativa di riconsegna alla Libia dei clandestini è stata effettuata in conformità al vigente quadro normativo interno e internazionale”. Dopotutto, ha ricordato lo stesso trattato di amicizia italo libico, all’articolo 6, prevede il rispetto dei diritti umani. Chiacchiere. Basterebbe fare un giro nei campi di detenzione nel deserto, a Kufrah piuttosto che a Qatrun, per capire che la realtà è ben diversa. Basterebbe incontrare i 600 eritrei da tre anni in carcere a Misratah, per capire quanto valgono le dichiarazioni di apertura al diritto d’asilo fatte da Tripoli. Basterebbe parlare con le donne incinte sbarcate lo scorso anno sull’isola, e scoprire che molte sono state violate proprio nelle carceri libiche.
E invece no, prevale il silenzio. Proprio perché adesso il lavoro è d’immagine, e serve a ritrarre la Libia come un paese terzo sicuro. Per poter così esternalizzare anche l’asilo politico. Con appositi centri di identificazione oltremare. E commissioni ad hoc per il riconoscimento dei rifugiati. Ne parleranno il 9 giugno a Roma i ministri degli esteri maltese e libico insieme a Frattini.
Nel grande, si tenterà di fare quello che Malta già fa nel suo piccolo. Un gruppo di 80 rifugiati lascerà presto La Valletta per la Francia. Fanno parte di un progetto di reinsediamento. Pochi giorni fa era stata la volta di 13 eritrei, partiti per gli Stati Uniti, paese che dal maggio dello scorso anno ha accolto ben 250 dei rifugiati intrappolati – nel vero senso del termine – sull’isola. Nessuno critica la bontà di questi progetti. Tutt’altro. E tuttavia il rischio è quello di legittimare le politiche repressive di Malta, pensate ai 18 mesi di detenzione che si fanno i richiedenti asilo sull’isola, nascondendole dietro la foglia di fico dei reinsediamenti.
Un simile discorso lo potremo applicare alla Libia. Ben vengano i reinsediamenti, se riescono ad aprire un corridoio umanitario. Ma non salviamone uno per condannarne altri cento a anni di detenzione e abusi, commessi in nome della difesa dei nostri confini.
Se davvero l'Italia e la Libia vogliono dare un segnale di apertura ai rifugiati, perchè non iniziano con la liberazione dei 600 eritrei di Misratah e con il loro trasferimento in Europa?
A Zuwarah sono partiti i pattugliamenti delle tre motovedette italiane, affidate al comando libico. Soltanto la scorsa settimana sono stati arrestati altri 400 viaggiatori. Ma la vera notizia è un’altra. Ed è relativa all’arresto di alcuni organizzatori delle traversate. Tutti libici, secondo quanto dichiarato dal ministero degli Interni libico. È il segnale che la Libia fa sul serio. Lo si direbbe anche dall’accordo per il pattugliamento della frontiera sud appena siglato con il Niger. Oltre che dalla disponibilità a firmare un accordo di sede con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) a Tripoli. Ma siamo sicuri che vada tutto bene?
Di certo non ne è sicuro l’avvocato Anton Giulio Lana, membro del Direttivo dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, che proprio oggi ha inoltrato ufficialmente la lettera di denuncia di violazione della Convenzione europea dei diritti umani alla Corte di Strasburgo, per conto dei suoi 24 assistiti, potenziali rifugiati respinti a inizio maggio e attualmente detenuti in Libia. “Tredici di loro - spiega l’avvocato - provenivano dall'Eritrea e undici dalla Somalia, quindi avevano tutti diritto a chiedere l'asilo politico”. L’articolo 4 del IV protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, vieta i respingimenti collettivi senza preventivo accertamento dell'identità. E l'articolo 3 della stessa Carta vieta il respingimento di persone verso paesi di transito dove possono essere soggetti a trattamenti disumani, come la Libia, o verso i paesi d'origine da cui i profughi sono fuggiti. E questo è il punto.
Certo, la creazione di un sistema d’asilo in Libia può essere salutato soltanto in modo positivo, come pure la sperimentazione di progetti di reinsediamento, che permettano ai rifugiati di viaggiare in aereo verso l’Europa, anziché rischiando la vita in mare. E tuttavia l’Italia e l’Europa non possono scaricarsi dagli obblighi del diritto internazionale, che impone la protezione dei rifugiati politici, a prescindere dalle leggi sull’immigrazione.
Maroni però sembra non vedere il problema. Lunedì scorso, riferendo in Senato, ha garantito che “l’iniziativa di riconsegna alla Libia dei clandestini è stata effettuata in conformità al vigente quadro normativo interno e internazionale”. Dopotutto, ha ricordato lo stesso trattato di amicizia italo libico, all’articolo 6, prevede il rispetto dei diritti umani. Chiacchiere. Basterebbe fare un giro nei campi di detenzione nel deserto, a Kufrah piuttosto che a Qatrun, per capire che la realtà è ben diversa. Basterebbe incontrare i 600 eritrei da tre anni in carcere a Misratah, per capire quanto valgono le dichiarazioni di apertura al diritto d’asilo fatte da Tripoli. Basterebbe parlare con le donne incinte sbarcate lo scorso anno sull’isola, e scoprire che molte sono state violate proprio nelle carceri libiche.
E invece no, prevale il silenzio. Proprio perché adesso il lavoro è d’immagine, e serve a ritrarre la Libia come un paese terzo sicuro. Per poter così esternalizzare anche l’asilo politico. Con appositi centri di identificazione oltremare. E commissioni ad hoc per il riconoscimento dei rifugiati. Ne parleranno il 9 giugno a Roma i ministri degli esteri maltese e libico insieme a Frattini.
Nel grande, si tenterà di fare quello che Malta già fa nel suo piccolo. Un gruppo di 80 rifugiati lascerà presto La Valletta per la Francia. Fanno parte di un progetto di reinsediamento. Pochi giorni fa era stata la volta di 13 eritrei, partiti per gli Stati Uniti, paese che dal maggio dello scorso anno ha accolto ben 250 dei rifugiati intrappolati – nel vero senso del termine – sull’isola. Nessuno critica la bontà di questi progetti. Tutt’altro. E tuttavia il rischio è quello di legittimare le politiche repressive di Malta, pensate ai 18 mesi di detenzione che si fanno i richiedenti asilo sull’isola, nascondendole dietro la foglia di fico dei reinsediamenti.
Un simile discorso lo potremo applicare alla Libia. Ben vengano i reinsediamenti, se riescono ad aprire un corridoio umanitario. Ma non salviamone uno per condannarne altri cento a anni di detenzione e abusi, commessi in nome della difesa dei nostri confini.
Se davvero l'Italia e la Libia vogliono dare un segnale di apertura ai rifugiati, perchè non iniziano con la liberazione dei 600 eritrei di Misratah e con il loro trasferimento in Europa?