Tratto da "Mamadou va a morire"
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Abraham ha 27 anni, dall’Eritrea è partito nel 2000, in fuga con un’intera generazione dalla coscrizione militare obbligatoria imposta dal presidente Isaias Afwerki. Per l’indipendenza dall’Etiopia le truppe eritree hanno combattuto trent’anni, dal 1961 al 1991, e il conflitto è riesploso tra il 1998 e il 2000 per l’assegnazione dei confini. Eppure, ancora oggi, la pace è lontana. Compiuta la maggiore età, uomini e donne, sono chiamati a impugnare le armi per sorvegliare la frontiera militarizzata con il gigante vicino, l’Etiopia. Quattro milioni di eritrei contro 75 milioni di etiopi, ovvero un popolo contro un esercito. A togliere l’uniforme prima dei 40 anni sono autorizzate solo le donne incinte, i malati e gli studenti universitari. Per tutti gli altri il mandato è a tempo indeterminato. Ad Asmara non rimangono che vecchi e bambini. Ma intanto al fronte sempre più ventenni rifiutano di gettare via gli anni migliori abbracciati a un fucile. Sfidano l’accusa di alto tradimento e lasciano il Paese sognando l’Europa. Di eritrei in Sicilia nel 2006 ne sono arrivati 2.859, tra cui 308 donne e 116 bambini. Nel 2005 erano stati 1.974. Abraham è uno di loro.
La sua prima tappa è stata Khartum, in Sudan, dove uno zio era emigrato anni prima. Lì è sbocciato l’amore con Anna, anche lei eritrea ma nata e cresciuta in Sudan, e dopo un paio d’anni è arrivato Daniel. Un bambino prodigio, visto che a soli 15 giorni di vita ha attraversato i mille chilometri di deserto del Sahara, avvolto in un turbante nero per proteggerlo dal sole e dalla sabbia, stretto tra le braccia di mamma e papà. Sul fuoristrada pick-up erano in 32. La macchina girava di giorno, tra le dune e le buche, sotto l’arsura del sole. Ogni sera i motori si spegnevano, per un po’ di riposo, stretti gli uni sugli altri, per cercare un minimo di tepore nelle gelide notti del Sahara, ma soprattutto per non mostrare la luce dei fari ai posti militari della frontiera. Alla fine, dopo un numero imprecisato di giorni, l’alba ha mostrato lontano, bagnata da un miraggio, la città di Kufrah, il primo avamposto libico sul lungo cammino verso il Mediterraneo. L’impresa non ha fatto entrare Daniel nel guinnes dei primati, ma in Europa sì. Prima però ha dovuto sfidare due volte le acque del Canale di Sicilia.
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«Mi ero trasferito a Milano, lavoravo alla fiera di Rho. In città era appena arrivata Suzi, una delle donne che era con noi sulla barca a luglio. Fu lei a raccontarmi cos’era accaduto a mia moglie». Un camion parcheggia davanti al commissariato di Zuwarah. Una decina di donne con i rispettivi bambini, di pochi anni o neonati, sono fatte salire, insieme ad altre 60 persone, dentro a un container di ferro caricato sull’autorimorchio. I motori sono già accesi. Le porte si chiudono sul carico umano. Fa buio. Si parte, direzione Kufrah, 1.500 chilometri più a sud, al confine col Sudan. Presto sotto il sole di luglio il container diventa un forno, l’aria si fa pesante, non si vede a un palmo dal naso. I bambini piangono. Il viaggio dura una ventina d’ore. A bordo non c’è niente da bere né da mangiare. Presto l’odore diventa insopportabile: vomito, feci, urine, gasolio e sudore. La morsa del sole non si allenta, la gente boccheggia. La gola brucia dalla sete, chi ha una bottiglietta raccoglie le urine per berle. Finché, finalmente, stremati dal viaggio, i portelloni si aprono sulla notte di un paesaggio desertico, di fronte al carcere dell’ultima città libica prima del Sudan, Kufrah. I deportati attraversano i cancelli derisi dai militari. Molti conoscono già le grate di ferro di Kufrah. Ricordi di lividi, fame e ferite. Vengono perquisiti. Soldi, telefonini e braccialetti se li prendono gli agenti. Le celle si chiudono.
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Appena Abraham ha notizie della moglie le versa con un Western Union i due ultimi stipendi per pagare l’affitto a Tripoli e comprare un altro viaggio in barca. «Certo che avevo paura per il bambino. Ma era l’unica soluzione. Fin dall’inizio lei non aveva mai accettato che partissi da solo e aveva insistito perché la portassi con me. Diceva che nessuno muore prima del suo tempo. Adesso era in Libia, ogni giorno rischiava d’essere arrestata e mandata di nuovo a morire nel deserto. Le era già andata bene una volta. E tornare in aereo era impossibile, era clandestina, e se si fosse presentata all’ambasciata eritrea l’avrebbero arrestata immediatamente. Era in trappola, e se dovevano morire, meglio che morissero in mare, piuttosto che in mezzo al deserto o in un carcere».
A maggio 2006 tutto è pronto per partire, ma la notte dell’imbarco una retata della polizia coglie di sorpresa una cinquantina di giovani nascosti in un rudere vicino al mare in attesa dei passeurs. Scoppia il panico. Gli agenti menano a destra e sinistra. La gente scappa. Con la forza della disperazione Anna riesce ad arrampicarsi su un albero con il bimbo legato alla schiena con un lenzuolo. È salva di nuovo e di nuovo non le resta che partire ancora. Col marito si sentono una volta a settimana, su Internet. Anna ha paura di uscire di casa. Finalmente Abraham trova altri soldi, il vecchio biglietto è scaduto. Tre mesi dopo, luglio 2006, la moglie e il bambino sbarcano a Lampedusa. Abraham li aspettava da un anno.
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