15 October 2007

In fuga dall'Eritrea: il deserto, il mare e i ghetti di Roma

Tratto da "Mamadou va a morire"

Tor Vergata, periferia est di Roma. A due passi dal Grande raccordo anulare, che con un abbraccio di traffico, bestemmie e fumi di scarico circonda la capitale 24 ore al giorno, la vecchia sede dell’Università Roma 2 specchia sui vetri neri delle finestre la luce del sole di un pomeriggio d’estate. Arrivo dopo pranzo. Il palazzo è occupato da un paio d’anni da circa 300 giovani, in maggioranza eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Non ho le carte in regola per avere un visto d’ingresso in Libia, così ho deciso di ripercorrere la geografia dei racconti di chi a Tripoli ci ha passato mesi, e più spesso anni, prima di raggiungere Lampedusa. Abraham è uno di loro. Mi aspetta al terzo piano. Tre settimane fa la moglie Anna è arrivata in Sicilia con il piccolo Daniel. Il viaggio è durato sei anni, eppure dalle porte di Roma, senza documenti e lavoro, la terra promessa sembra ancora lontana.

Abraham ha 27 anni, dall’Eritrea è partito nel 2000, in fuga con un’intera generazione dalla coscrizione militare obbligatoria imposta dal presidente Isaias Afwerki. Per l’indipendenza dall’Etiopia le truppe eritree hanno combattuto trent’anni, dal 1961 al 1991, e il conflitto è riesploso tra il 1998 e il 2000 per l’assegnazione dei confini. Eppure, ancora oggi, la pace è lontana. Compiuta la maggiore età, uomini e donne, sono chiamati a impugnare le armi per sorvegliare la frontiera militarizzata con il gigante vicino, l’Etiopia. Quattro milioni di eritrei contro 75 milioni di etiopi, ovvero un popolo contro un esercito. A togliere l’uniforme prima dei 40 anni sono autorizzate solo le donne incinte, i malati e gli studenti universitari. Per tutti gli altri il mandato è a tempo indeterminato. Ad Asmara non rimangono che vecchi e bambini. Ma intanto al fronte sempre più ventenni rifiutano di gettare via gli anni migliori abbracciati a un fucile. Sfidano l’accusa di alto tradimento e lasciano il Paese sognando l’Europa. Di eritrei in Sicilia nel 2006 ne sono arrivati 2.859, tra cui 308 donne e 116 bambini. Nel 2005 erano stati 1.974. Abraham è uno di loro.

La sua prima tappa è stata Khartum, in Sudan, dove uno zio era emigrato anni prima. Lì è sbocciato l’amore con Anna, anche lei eritrea ma nata e cresciuta in Sudan, e dopo un paio d’anni è arrivato Daniel. Un bambino prodigio, visto che a soli 15 giorni di vita ha attraversato i mille chilometri di deserto del Sahara, avvolto in un turbante nero per proteggerlo dal sole e dalla sabbia, stretto tra le braccia di mamma e papà. Sul fuoristrada pick-up erano in 32. La macchina girava di giorno, tra le dune e le buche, sotto l’arsura del sole. Ogni sera i motori si spegnevano, per un po’ di riposo, stretti gli uni sugli altri, per cercare un minimo di tepore nelle gelide notti del Sahara, ma soprattutto per non mostrare la luce dei fari ai posti militari della frontiera. Alla fine, dopo un numero imprecisato di giorni, l’alba ha mostrato lontano, bagnata da un miraggio, la città di Kufrah, il primo avamposto libico sul lungo cammino verso il Mediterraneo. L’impresa non ha fatto entrare Daniel nel guinnes dei primati, ma in Europa sì. Prima però ha dovuto sfidare due volte le acque del Canale di Sicilia.

Luglio 2005, il primo viaggio. Sessantaquattro persone su un vecchio legno, che imbarca acqua dalle fessure tra le tavole dello scafo. I crampi alle gambe, la nausea e il rumore assordante del motore tengono svegli nel buio. Ognuno con delle bottiglie di plastica tagliate raccoglie l’acqua tra i piedi, sul fondo, per poi gettarla in mare. Sperare. All’alba il motore va in panne. Silenzio tra le onde. Mentre qualcuno svita a casaccio con una maledetta pinza di ferro, arrivano i soccorsi degli operai di una piattaforma petrolifera nella zona. «Italiani» dice Abraham, che ricorda le croci appese alle catenine d’oro. Lungo le rotte libiche si trova l’impianto Eni di Bahr Essalam, ma Abraham non era abbastanza vicino alla piattaforma per leggere. Fatto sta che l’equipaggio prende a bordo solo donne e bambini, per poi lasciare alla deriva gli altri passeggeri, intercettati due giorni dopo da un elicottero italiano. Abraham è salvo. Il primo pensiero al centro di accoglienza di Lampedusa va alla moglie e al piccolino. Disperato, cerca di denunciarne la scomparsa. Inutile, non viene ascoltato. «Noi non possiamo fare niente». Nelle stesse ore, dall’altro lato del Canale, Anna viene rimpatriata in Libia e arrestata. Il suo telefono rimane spento per quattro mesi.

«Mi ero trasferito a Milano, lavoravo alla fiera di Rho. In città era appena arrivata Suzi, una delle donne che era con noi sulla barca a luglio. Fu lei a raccontarmi cos’era accaduto a mia moglie». Un camion parcheggia davanti al commissariato di Zuwarah. Una decina di donne con i rispettivi bambini, di pochi anni o neonati, sono fatte salire, insieme ad altre 60 persone, dentro a un container di ferro caricato sull’autorimorchio. I motori sono già accesi. Le porte si chiudono sul carico umano. Fa buio. Si parte, direzione Kufrah, 1.500 chilometri più a sud, al confine col Sudan. Presto sotto il sole di luglio il container diventa un forno, l’aria si fa pesante, non si vede a un palmo dal naso. I bambini piangono. Il viaggio dura una ventina d’ore. A bordo non c’è niente da bere né da mangiare. Presto l’odore diventa insopportabile: vomito, feci, urine, gasolio e sudore. La morsa del sole non si allenta, la gente boccheggia. La gola brucia dalla sete, chi ha una bottiglietta raccoglie le urine per berle. Finché, finalmente, stremati dal viaggio, i portelloni si aprono sulla notte di un paesaggio desertico, di fronte al carcere dell’ultima città libica prima del Sudan, Kufrah. I deportati attraversano i cancelli derisi dai militari. Molti conoscono già le grate di ferro di Kufrah. Ricordi di lividi, fame e ferite. Vengono perquisiti. Soldi, telefonini e braccialetti se li prendono gli agenti. Le celle si chiudono.

Tre mesi dopo, alle luci dell’alba, senza nessun preavviso, un camion verde militare carica una sessantina di persone a bordo. Sono state condannate all’espulsione in Sudan. Tra loro ci sono anche Anna e il piccolo Daniel, sei mesi. Il camion si avvia tra le buche di una pista di terra tra le dune del deserto. Li aspetta un viaggio lunghissimo, ma i motori si fermano dopo sì e no un paio d’ore. L’autista fa scendere tutti. Il sole del mattino già inizia a bruciare, e un orizzonte di sabbia e miraggi blocca sul nascere qualsiasi idea di fuga. Le opzioni sono due, spiegano in arabo i militari a un ragazzo che fa da interprete. «Duecento dollari a testa e vi riportiamo in città. Oppure proseguiamo». La polizia sa di giocarsi un carico d’oro. Nel giro di un’ora di trattative si trova l’accordo. Molti sono riusciti a nascondere i soldi al momento dell’arresto, cuciti addosso nell’orlo dei pantaloni o dentro le scarpe. Chi ha più dollari paga la quota per le donne e i bambini rimasti senza un centesimo. Raggiunta la periferia di Kufrah, gli stessi militari li mettono in contatto con dei passeurs amici. Chi ha altri soldi parte subito sui fuoristrada diretti a Benghazi, al nord. Anna e il piccolo sono salvi.

Appena Abraham ha notizie della moglie le versa con un Western Union i due ultimi stipendi per pagare l’affitto a Tripoli e comprare un altro viaggio in barca. «Certo che avevo paura per il bambino. Ma era l’unica soluzione. Fin dall’inizio lei non aveva mai accettato che partissi da solo e aveva insistito perché la portassi con me. Diceva che nessuno muore prima del suo tempo. Adesso era in Libia, ogni giorno rischiava d’essere arrestata e mandata di nuovo a morire nel deserto. Le era già andata bene una volta. E tornare in aereo era impossibile, era clandestina, e se si fosse presentata all’ambasciata eritrea l’avrebbero arrestata immediatamente. Era in trappola, e se dovevano morire, meglio che morissero in mare, piuttosto che in mezzo al deserto o in un carcere».

A maggio 2006 tutto è pronto per partire, ma la notte dell’imbarco una retata della polizia coglie di sorpresa una cinquantina di giovani nascosti in un rudere vicino al mare in attesa dei passeurs. Scoppia il panico. Gli agenti menano a destra e sinistra. La gente scappa. Con la forza della disperazione Anna riesce ad arrampicarsi su un albero con il bimbo legato alla schiena con un lenzuolo. È salva di nuovo e di nuovo non le resta che partire ancora. Col marito si sentono una volta a settimana, su Internet. Anna ha paura di uscire di casa. Finalmente Abraham trova altri soldi, il vecchio biglietto è scaduto. Tre mesi dopo, luglio 2006, la moglie e il bambino sbarcano a Lampedusa. Abraham li aspettava da un anno.

Niente di speciale. La loro è una storia come tante, basterebbe chiedere a caso a uno dei 19.099 uomini, delle 1.037 donne o dei 1.264 bambini sbarcati in Sicilia nel 2006. Ognuno di loro ricorda un inferno. Migliaia di altre persone non lo potranno mai raccontare. La traversata negli ultimi dieci anni è costata la vita a più di duemila persone. Ma tutto questo il piccolo Daniel non lo sa. Nella sua affollata cameretta con vista sull’autostrada romana gioca a far scontrare due colorate Micro Machines, mentre Anna mi offre un tè in un bicchiere di plastica. Qui non c’è il deserto, non ci sono le sbarre di una galera, divise che strillano e voci che piangono in camerate di gente ammucchiata, e non ci sono nemmeno le onde del mare la notte o il rumore assordante del motore ore e ore. Ma a due anni Daniel è già un piccolo ometto, e presto saprà abituarsi anche alla normalità.