Musica, si parte! Ormai sono molti i rapper della riva sud del Mediterraneo che cantano l'avventura della traversata. Le loro parole ci aiutano a capire meglio cosa succede sul confine. Vista dai quartieri popolari di Tunisi, dai sobborghi di Annaba o dalle campagne di Khouribga, la frontiera non è soltanto un confine geografico, ma molto di più. È la sfida, la prova di coraggio per raggiungere un altrove dove realizzare i sogni di una vita. Al punto che dal Marocco alla Tunisia, viaggiare senza documenti si dice harraga, ovvero bruciare.
Bruciare la frontiera, esattamente come Tariq Ben Ziyyad, il condottiero arabo che durante la conquista della Spagna nell'ottavo secolo dopo Cristo ordinò ai suoi combattenti di bruciare le barche una volta attraversato lo stretto di Gibilterra, perché indietro non si torna, o si vince o si muore. Così, tredici secoli dopo, il mito della conquista rivive sulle barche dei harraga. La sfida però è tutta individuale, come pure i rischi. E infatti in Marocco emigrare si dice anche kayriskì, dal francese, ovvero rischiare. Per i giovanissimi, rischiare è quasi una bravata ai tempi della globalizzazione, un'avventura per evadere dalla periferia del mondo e sentirsi finalmente al centro del proprio immaginario, finalmente vivi. Per i più grandi invece quella è semplicemente l'unica strada che porta al riscatto economico di se stessi e della propria famiglia. In una parola: al consumo e dunque a una presunta felicità.
Non sempre però le cose vanno come previsto. Perché l'Europa può essere anche un inganno, come dice un'altra canzone tunisina. E allora ecco spuntare anche nei testi del rap il punto di vista dei padri, e più in generale della maggioranza della società della riva sud del Mediterraneo. Davvero vale la pena rischiare la vita in mare? Quanti ragazzi sono già morti? E quanti ancora dovranno morire?
La risposta sembra arrivare da un'altra canzone. L'avevo postata ad aprile, quando uno studente universitario tunisino a Ventimiglia mi citò una delle più belle poesie di Chebbi per spiegarmi il suo desiderio di viaggiare e di sentirsi libero. Una poesia che avevo già sentito più di una volta nelle piazze delle rivoluzioni a Tunisi, Cairo e Benghazi. Perché in fondo anche bruciare la frontiera è un atto di ribellione. Tanto quanto scendere in piazza contro un regime. Perché ci si gioca la vita, per riconquistare la dignità e ciò che si ritiene un proprio diritto: la libertà di circolazione.
E allora le migliaia di poveri che ogni anno viaggiano senza documenti, costituiscono un'avanguardia politica, sono il più importante movimento di massa di disobbedienza alle leggi ingiuste della frontiera. E le canzoni che vi proponiamo sono la loro colonna sonora. Le ascoltano in radio, le canticchiano in barca durante le traversate, e le scaricano da internet come suoneria per i cellulari.
Facciamole girare anche noi. Nelle nostre radio, nei nostri documentari e nei nostri blog. Affinché le loro parole diventino anche le nostre. Nella speranza che ci aiutino a riscrivere una nuova estetica della frontiera. Perché se mai un giorno il mondo sceglierà la libertà di circolazione, come io credo, saranno loro, i harraga, gli eroi e i martiri dei nostri nipoti.
Di seguito trovate i video delle canzoni e il testo tradotto in italiano.
Bruciare la frontiera, esattamente come Tariq Ben Ziyyad, il condottiero arabo che durante la conquista della Spagna nell'ottavo secolo dopo Cristo ordinò ai suoi combattenti di bruciare le barche una volta attraversato lo stretto di Gibilterra, perché indietro non si torna, o si vince o si muore. Così, tredici secoli dopo, il mito della conquista rivive sulle barche dei harraga. La sfida però è tutta individuale, come pure i rischi. E infatti in Marocco emigrare si dice anche kayriskì, dal francese, ovvero rischiare. Per i giovanissimi, rischiare è quasi una bravata ai tempi della globalizzazione, un'avventura per evadere dalla periferia del mondo e sentirsi finalmente al centro del proprio immaginario, finalmente vivi. Per i più grandi invece quella è semplicemente l'unica strada che porta al riscatto economico di se stessi e della propria famiglia. In una parola: al consumo e dunque a una presunta felicità.
Non sempre però le cose vanno come previsto. Perché l'Europa può essere anche un inganno, come dice un'altra canzone tunisina. E allora ecco spuntare anche nei testi del rap il punto di vista dei padri, e più in generale della maggioranza della società della riva sud del Mediterraneo. Davvero vale la pena rischiare la vita in mare? Quanti ragazzi sono già morti? E quanti ancora dovranno morire?
La risposta sembra arrivare da un'altra canzone. L'avevo postata ad aprile, quando uno studente universitario tunisino a Ventimiglia mi citò una delle più belle poesie di Chebbi per spiegarmi il suo desiderio di viaggiare e di sentirsi libero. Una poesia che avevo già sentito più di una volta nelle piazze delle rivoluzioni a Tunisi, Cairo e Benghazi. Perché in fondo anche bruciare la frontiera è un atto di ribellione. Tanto quanto scendere in piazza contro un regime. Perché ci si gioca la vita, per riconquistare la dignità e ciò che si ritiene un proprio diritto: la libertà di circolazione.
E allora le migliaia di poveri che ogni anno viaggiano senza documenti, costituiscono un'avanguardia politica, sono il più importante movimento di massa di disobbedienza alle leggi ingiuste della frontiera. E le canzoni che vi proponiamo sono la loro colonna sonora. Le ascoltano in radio, le canticchiano in barca durante le traversate, e le scaricano da internet come suoneria per i cellulari.
Facciamole girare anche noi. Nelle nostre radio, nei nostri documentari e nei nostri blog. Affinché le loro parole diventino anche le nostre. Nella speranza che ci aiutino a riscrivere una nuova estetica della frontiera. Perché se mai un giorno il mondo sceglierà la libertà di circolazione, come io credo, saranno loro, i harraga, gli eroi e i martiri dei nostri nipoti.
Di seguito trovate i video delle canzoni e il testo tradotto in italiano.
Partir Loin La prima incisione risale al 2005, ma ancora oggi il pezzo di Reda Taliani e 113 è un tormentone. Il segreto del suo successo, oltre a un ritmo irresistibile, sono sicuramente le parole del ritornello, quando il cantante supplica la barca “Yal babour ya mon amour” come se fosse la sua amata, chiedendogli di "portarlo fuori dalla miseria" per una “evasione speciale” dall'Algeria. Leggi il testo | |
Mchaou Di Balti e Samir Loussif. Mchaou in italiano significa se ne sono andati. Se ne sono andati i ragazzi. I ragazzi di Tunisi. Non i figli della borghesia e della classe media, ma i giovani dei quartieri popolari. Quelli stufi della disoccupazione e della povertà. Quelli che un giorno hanno visto tornare dall'Italia gli amici di una vita. E hanno deciso di "giocarsi tutto" per "fare felici le proprie madri". Leggi il testo | |
Chenoui Kheloui Lui si chiama Reda Tamni. Ma tutti lo conoscono come Reda Taliani. Reda l'italiano. Il soprannome glielo hanno affibbiato quando era soltanto un bambino di otto anni, per il modo in cui si vestiva. Da allora di strada ne ha fatta. E oggi, ormai trentunenne, il bambino griffato di Koléa è uno dei protagonisti della scena musicale algerina, grazie a un sound che mischia raï, chaabi e stili tradizionali del Maghreb. Leggi il testo | |
Mzeyra Tangeri è da sempre città di frontiera per la sua posizione geografica all'incrocio tra due mari e due continenti. L'Europa da qui si vede a occhio nudo. Basta salire a prendersi un tè al caffè Hafa, sopra la Qasbah, per osservare le luci di Tarifa al di là del Mediterraneo. Il rapper Bramfori racconta in musica i sentimenti dei ragazzi che ogni notte tentano la traversata sotto i camion al porto. Leggi il testo | |
Ah ya lebhar Lotfi o si ama o si odia. Perché i suoi sono testi senza mezze misure. La sua fama di cantante ribelle se l'è guadagnata fin dagli esordi. Era il 1997 e la polizia interruppe un suo concerto in un teatro di Annaba, per censurare i contenuti delle sue canzoni. Finì con una mezza sommossa e con Kamikaz, il suo primo album. "Ah ya lebhar" è una specie di inno a bruciare la frontiera. Leggi il testo | |
Sardinia Harraga Dedicato ai ragazzi dei quartieri popolari di Annaba partiti negli ultimi cinque anni sulla rotta per la Sardegna. Sardinia Harraga è un viaggio, "un viaggio per la Sardegna". Lo dice Azzou nel suo testo: "Vieni che ti racconto come per poco non ci rimanevamo". Dentro c'è tutto. La pena di una vita senza prospettive e la scelta, quasi inevitabile, di bruciare la frontiera. Leggi il testo | |
Yammi Questa canzone di Balti è una lettera struggente a una madre. Scritta di getto da un ragazzo dei quartieri popolari di Tunisi, la notte prima della traversata in mare per Lampedusa. Sa che ha una buona probabilità di morire in mare, e sente il bisogno di dire alla madre quanto l'ha amata, e quanto in fondo questo viaggio sia anche per lei. Leggi il testo | |
L'harqa Kamkam è un volto nuovo del rap tunisino. Ha iniziato a suonare dopo la caduta del regime di Ben Ali, e questo è uno dei suoi primi pezzi. Interessante perché ci accompagna verso quello che pensa la maggioranza dell'opinione pubblica sulla riva sud del Mediterraneo. Ovvero che bruciare la frontiera non valga più la pena. Leggi il testo | |
Babour li jabni In italiano suona come "Maledetta la barca che mi ha portato". La canzone, prodotta a Marsiglia nel 1997, ha consacrato Cheb Bilal come nuovo interprete della musica raï. Canta la disillusione di chi il viaggio l'ha già fatto, la nostalgia per il paese, e la tristezza della lontananza. Sentimenti comuni a migliaia di harraga in Europa, perché paradossalmente nella fortezza è più facile entrare che uscire. Leggi il testo | |
Ya rayah Un classico della musica algerina, dedicato a tutti quelli che non ce l'hanno fatta. Che oggi sono prigionieri della fortezza Europa. Senza documenti validi per lavorare o per viaggiare, magari detenuti nei Cie o nelle carceri per qualche piccolo reato. Perennemente combattuti tra la nostalgia del proprio paese e della propria famiglia, e l'impossibilità di rientrare senza una storia di successo. Leggi il testo |