27 August 2007

Lampedusa: salvarono naufraghi, oggi rischiano il carcere

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ROMA, 27 agosto 2007 – Salvarano la vita a 44 naufraghi nel Canale di Sicilia. Oggi rischiano il carcere. Continua ad Agrigento il processo ai pescatori tunisini accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver soccorso in mare i migranti di un gommone semiaffondato lo scorso 8 agosto, 36 miglia al largo di Lampedusa. Pescatori e migranti parlano di un gommone affondato e di un soccorso in mare durante una battuta di pesca in acque internazionali. Ma l’accusa non crede a questa versione dei fatti. L’impianto accusatorio si basa sul fatto che la Capitaneria di Porto non aveva dato l’autorizzazione all’ingresso in Italia, ordinando ai pescherecci di tornare in Tunisia. I due pescherecchi, Mohamed Hedi e Morthada, registrati nella flotta del porto di Monastir, non avevano a bordo né reti né pescato. E del gommone dal quale i migranti sarebbero stati tratti in salvo non è stata trovata traccia. I gommoni non affondano e a pescare si va con le reti, sostiene l’accusa, che sospetta che i due pescherecci fossero in realtà due navi madre che avrebbero dovuto trasbordare in acque internazionali i 44 passeggeri, tra cui 11 donne e due bambini, su dei gommoni che li portassero fino all’isola. Ma per la difesa, la storia è completamente diversa.

Come sono andati i fatti lo ha raccontato al giudice, il 23 agosto, Naciri Mohamed, marocchino, uno degli uomini tratti in salvo dai pescherecci, insieme a molti eritrei, sudanesi ed etiopi. Il gommone su cui viaggiavano è andato in avaria la notte del secondo giorno di viaggio. La camera d’aria a poppa ha iniziato a sgonfiarsi. Dopo il rifiuto di diversi pescherecci di prestare loro soccorso, le due barche tunisine li hanno presi a bordo. Il gommone sarebbe affondato prendendo acqua mentre i passeggeri spingevano per salire a bordo del peschereccio, sommerso da onde alte due metri. E per quanto riguarda l’assenza di reti, la difesa sostiene che il Hedi e il Morthada erano parte di un gruppo di pescherecci impegnati in una battuta di pesca a ciancialo, i due natanti dovevano cioè soltanto illuminare i fondali e aiutare un’altra imbarcazione a tirare le reti. Inoltre, secondo quanto dichiarato dal teste Naciri Mohamed, due dei passeggeri avrebbero telefonato in Italia per dare l’allarme chiedendo di avvisare le autorità, prima dell’arrivo dei pescherecci. La visita di un medico della Marina a bordo di pescherecci aveva poi accertato le condizioni fisiche dei migranti definendole non particolarmente gravi allo scopo di escludere che i pescatori potessero invocare uno stato di necessità per giustificare il loro attracco a Lampedusa. Ai due pescherecci è stato quindi intimandogli di invertire rotta verso la Tunisia. Ma con il mare brutto i comandanti delle imbarcazioni hanno deciso di sbarcare comunque i passeggeri a Lampedusa. All’arrivo, 4 persone sono state trasportate in elicottero all’ospedale di Palermo. I membri dell’equipaggio hanno esibito i documenti delle imbarcazioni, di proprietà dello stesso armatore. Ma non sono serviti. I sette uomini, due comandanti e cinque membri dell’equipaggio, sono stati arrestati in flagranza di reato per non aver ottemperato al divieto di attracco al molo italiano, e le loro imbarcazioni poste sotto sequestro. In carcere da due settimane, il processo si è aperto per direttissima ad Agrigento, e le udienze andranno avanti oggi, 27 agosto e domani.

Se i sette dovessero essere condannati, sarebbe la prima sentenza di condanna contro i pescatori, già altre volte denunciati ma poi sempre assolti per l’esimente umanitaria prevista dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, secondo cui “non costituiscono reato le attività di soccorso e di assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizione di bisogno”. Non soltanto. La legge sull’immigrazione, e l’articolo 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, vietano il respingimento in frontiera quelle persone che rischiano nel paese di transito, o nel paese di provenienza, in caso di un successivo refoulement, trattamenti inumani e degradanti. “Tutte le pratiche di respingimento in mare rivolte indistintamente verso un gruppo di migranti, - scrive il giurista Fulvio Vassallo Paleologo - soprattutto quando si verificano nelle acque territoriali, configurano la violazione di un divieto di refoulement (respingimento) perché impediscono un esame individuale delle singole posizioni ed una effettiva possibilità di difesa e di assistenza legale, in violazione degli articoli 10 e 24 della Costituzione italiana”. E i respingimenti collettivi sono vietati anche dalla Carta di Nizza del 2000. A maggior ragione dal momento che i flussi migratori del Canale di Sicilia sono composti anche di richiedenti asilo politico, come ribadito dal Libro verde sul futuro regime europeo in materia di asilo, presentato dalla Commissione Europea nel giugno scorso, e confermato dall’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite.

Lo stesso diritto marittimo, ricorda Paleologo, in base alla Convenzione on Marittime Search and Rescue SAR 1979 si impone a tutti, mezzi militari e commerciali, un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”, che non è necessariamente il porto più vicino, specie quando trattasi degli approdi in Tunisia e in Libia, paesi denunciati più volte da Human Rights Watch, Amnesty International e Fortress Europe per gli abusi commessi su migranti e richiedenti asilo.

Leggi su Meltingpot: Ancora sotto accusa chi salva la vita in mare, di Fulvio Vassallo Paleologo

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