01 July 2011

A volte ritornano


Dopo l'ebbrezza della rivoluzione, l'avventura in mare e la ricerca della felicità in Europa, centinaia di ragazzi tunisini hanno ripreso la via del ritorno. Passano dal consolato di Genova e di Palermo, che dà una mano a chi non ha i soldi per comprarsi il biglietto della nave per Tunisi. E tornano a casa. A raccontare la loro storia è l'inviato di Al Jazeera English in questo servizio che vi riproponiamo. Le loro storie faranno forse vacillare le certezze di chi predica la teoria dell'invasione. Ma se ci fermiamo un attimo a pensare, era la cosa più ovvia da aspettarsi. Dalla Tunisia molti erano davvero partiti sull'onda dell'entusiasmo collettivo. Non parlo degli ex detenuti scappati dalle carceri tunisine durante la rivoluzione, i quali non hanno certo interesse a tornare e scontarsi la pena residua. Non parlo nemmeno di chi in Francia ha parenti e amici da cui appoggiarsi in attesa di trovare un lavoro e imparare la lingua. E nemmeno di chi in Italia ci è arrivato per la seconda volta, dopo averci vissuto una vita ed essere stato espulso negli anni passati. Parlo invece di tutti gli altri, quelli partiti più per curiosità e senso dell'avventura che non per altri motivi. Per tutti loro, era la cosa più scontata immaginarsi che chi non avesse trovato ciò che sognava sarebbe ritornato. "L'Europa ce l'eravamo immaginata diversa, tanto vale tornare", dicono a Al Jazeera. E lo fanno di propria volontà. E questo è il punto del ragionamento. La libertà di viaggiare, ma nei due sensi, la libertà di andare e di tornare.

Di fronte ai circa mille tunisini espulsi con la forza dall'Italia dall'inizio dell'anno – gli ultimi 28 oggi da Lampedusa – il fatto che centinaia di ragazzi scelgano di tornare a Tunisi di propria iniziativa, ci dice che l'unica ricetta possibile per gestire i cosiddetti flussi migratori è non gestirli. Ovvero lasciare libere le persone di circolare in andata e in ritorno. Esattamente come accade senza fare rumore da ormai quattro anni con paesi come Romania, Bulgaria, Polonia, dai quali proviene metà degli stranieri presenti in Italia. Paradossalmente bisogna ringraziare Maroni, per averci dato la possibilità di dimostrarlo scientificamente.

Se infatti il ministro dell'interno non avesse deliberato il rilascio di oltre 14.000 permessi umanitari di sei mesi a altrettanti tunisini sbarcati prima del 5 aprile, a Tunisi non sarebbe tornato nessuno. E avremmo avuto in Europa altre 14.000 persone costrette alla clandestinità, obbligate a lavorare in nero e a vivere ai margini della società anche perché intrappolate nei nostri confini e impossibilitate a rientrare in patria perché prive di documenti di identità.

Grazie a quel documento invece i ragazzi hanno sei mesi di tempo per girare l'Europa, farsi un'idea delle possibilità reali che hanno qui e decidere se rimanere oppure ripartire. Ma ripartire per tornare a testa alta, come chi ha liberamente deciso che questa Europa non vale la pena. E non con l'umiliazione e la rabbia di chi ritorna dopo mesi di detenzione e di umiliazioni continue.

Quanta violenza infatti viene operata in nome della legge per controllare e contenere centinaia e migliaia di ragazzi nelle gabbie dei centri di identificazione e espulsione? E quanti sono i tipi di quella violenza.... La violenza bianca degli psicofarmaci che i reclusi chiedono ogni mattina per dimenticare la propria umiliazione e il proprio dolore. La violenza istituzionale di chi viene sequestrato dallo Stato italiano in improvvisati centri di detenzione senza la convalida del giudice per settimane. La violenza fisica dei pestaggi delle forze dell'ordine a ogni tentativo di fuga e a ogni protesta. E la violenza fisica dei reclusi, che sempre più spesso danno in escandescenza e si scagliano contro agenti delle forze dell'ordine e operatori sociali perché non sopportano di essere rinchiusi come animali. Come non capirli? Al loro posto chi non farebbe lo stesso al solo pensiero di buttare via 18 mesi della propria vita in una gabbia.

E non ci stupiamo se un giorno di tutto questo ci sarà chiesto di pagare il conto. Perché tutto ha un costo. E non mi riferisco alle montagne di denaro che alimentano il settore privato delle cooperative che vivono della gestione dei campi di espulsione, da Connecting people alle Misericordie, dalla Croce Rossa Italiana all'Arciconfraternita del santissimo sacramento e di san Trifone. Parlo del ritorno d'immagine di questa Europa sempre più inospitale e razzista.

Tra i tunisini reclusi al centro di espulsione di Torino c'è già qualcuno che giura vendetta contro gli italiani in Tunisia. Dicono che non li vogliono più vedere i turisti italiani al bled (il paese, in arabo). "Vedrai il primo che incontro cosa gli faccio". Non sono soltanto sfoghi. C'è di più. C'è che chi semina odio raccoglie disprezzo. Anche questo è un costo della repressione. Il carico di odio e di rancore che cova in sé chi è arrivato qui con una valigia di sogni e forse di ingenuità e se ne riparte con le cicatrici di umiliazioni e violenze psicologiche e fisiche mai subite nemmeno in patria ai tempi della dittatura.

Al punto che in tanti preferiscono sinceramente tornare nel proprio paese anziché vivere in questa Europa che rischia di murarsi viva dentro la propria fortezza.