La sua storia aveva commosso l'Italia qualche settimana fa, quando a parlare era stata la moglie Winny, una ragazza olandese di 23 anni venuta a Lampedusa a riprendersi il marito, anche lui ventitreenne. I due ragazzi si erano conosciuti un anno fa nell'isola di Kos, in Grecia: Nizar faceva l'animatore turistico, Winny era in vacanza. È stato amore a prima vista, seguito da un matrimonio lampo, celebrato sull'isola, il 26 settembre scorso. Poi la coppia si è trasferita in Tunisia. Quando sono scoppiati i primi disordini, Winny è stato costretta a lasciare il paese mentre il marito è rimasto bloccato e ha deciso alla fine di salire su una barca per Lampedusa. Ma il sogno di un amore si è trasformato in un incubo. Ieri Nizar è stato pestato a sangue dagli agenti della Guardia di Finanza nel centro di accoglienza di Lampedusa, per poi essere arrestato. Unico pescato nel mucchio dopo i violenti tafferugli tra i reclusi tunisini e le forze dell'ordine sfociati in un pestaggio. Un pestaggio annunciato. Lo dicevamo da giorni. Che al centro d'accoglienza di Lampedusa, trasformato di fatto dal 2 maggio in un centro di detenzione, la tensione stava salendo in modo preoccupante. E che presto sarebbe scoppiata l'ennesima rivolta. E così è stato.
Il malcontento era già diffuso sin dal mattino, quando i trattenuti della sezione degli africani erano stati trasferiti al porto per imbarcarsi sulla nave che li ha portati nei centri d'accoglienza della penisola. Ma la scintilla che ha fatto incendiare gli animi è stato la cacciata di alcuni giornalisti, che nel pomeriggio si erano avvicinati al centro per fare delle riprese. I militari li hanno invitati ad allontanarsi. E quando i reclusi hanno visto la scena, hanno inscenato una rumorosa protesta. Alcuni sono saliti sui tetti, altri hanno scritto su dei cartelli “Libertà” e tutti in coro hanno cantato lo slogan “Aiuto! Libertà!”. Dopodiché in massa hanno tentato di sfondare il cancello della recinzione del blocco senonché dall'altra parte si sono trovati gli agenti delle forze dell'ordine in tenuta antisommossa, pronti a caricare. Ne sono seguiti pesanti tafferugli, durante i quali è stata anche danneggiata un'auto. Alla fine degli scontri, si sono contati feriti sia tra gli agenti di Guardia di Finanza e Carabinieri, sia tra i reclusi. Un finanziere è rimasto ferito al setto nasale dopo essere stato colpito da una pietra al viso di rimbalzo. A lanciare la pietra nel mezzo della mischia, sarebbe stato, secondo una prima ricostruzione delle forze dell'ordine, proprio Nizar. Che per quell'affronto ha pagato con un pestaggio in piena regola. Ce lo hanno confermato due testimoni oculari.
Anche Nizar ieri infatti era lì a protestare in prima linea, probabilmente pensando alla moglie e al bambino che porta in grembo che lo aspettano da tre settimane fuori dalla gabbia. Anche alcuni dei reclusi dicono di averlo visto lanciare degli oggetti contro gli agenti. Ma questo non spiega l'accanimento contro di lui. È stato circondato dagli uomini della Guardia di Finanza e picchiato con calci, pugni e manganellate. “L'hanno portato via con la testa rotta, aveva il volto coperto di sangue” ci ha raccontato un testimone. Nessuno degli altri contusi è stato picchiato come lui. Alla fine l'hanno portato nei locali delle forze dell'ordine, dove non sappiamo cosa possa essere accaduto. Questa mattina sono venuti a prendere le sue poche cose in stanza e l'hanno portato via. Pare sia stato arrestato. Fortunatamente è seguito da un bravo avvocato che ci terrà aggiornati sul suo caso.
E intanto non ci sono notizie su un eventuale prossimo trasferimento dei tunisini reclusi a Lampedusa. Il che significa che un'altra rivolta come quella di ieri è possibile. La tensione resta alta. Il ministro Maroni o chi per lui non può pretendere che siano le manganellate o i farmaci tranquillanti a sedare la legittima richiesta di libertà di 200 ragazzi che non hanno commesso reato ma che da ormai 25 giorni sono rinchiusi in gabbia, il tutto – lo ripetiamo fino alla noia – senza che nessun giudice abbia convalidato il loro trattenimento, come richiesto per legge! E in centro giuridicamente non predisposto alla detenzione bensì all'accoglienza. Che aspettano i parlamentari a fare interrogazioni sul caso? Che aspettano gli avvocati a fare ricorsi? Che aspettano gli italiani a appoggiare da fuori le proteste di chi dentro è ingiustamente privato della propria libertà?
È anche per questo che tanto insistiamo sulle storie. Perché ci serve un nuovo immaginario. Serve un'Italia capace di indignarsi per ogni persona finita in gabbia per il reato di viaggio. Indignez vous direbbe un vecchio francese. Per Nizar, per sua moglie, e per il suo bambino. Perché non è possibile che nel 2011 in Europa esistano leggi che vietano a un padre di vivere accanto alla donna che ama e al suo bambino. Ma ci rendiamo conto di tutta questa violenza istituzionale?
Con il passaporto rosso dell'Unione europea giriamo il mondo e siamo i benvenuti. Con un passaporto verde tunisino viaggiare è reato. E una volta arrivati si vive come braccati. Si vive come i tre ragazzi che sono scappati due giorni fa dal centro di identificazione e espulsione di Chinisia (Tr). Persi nelle campagne trapanesi non sapevano cosa fare. Uno di loro si era ferito durante la fuga, tagliandosi col filo spinato. Ma avevano paura di andare al pronto soccorso. Paura di essere arrestati. E allora hanno chiamato una loro amica in Francia. E tramite il passaparola siamo riusciti a fargli raggiungere alcuni parenti in un'altra città italiana. Lì il ragazzo sarà curato e riprenderà il suo viaggio. Grazie all'altra Italia. Quella che non vuole le gabbie, quella che non respinge e che non riempie di manganellate chi chiede la libertà. L'Italia che accoglie. L'Italia del volontariato e delle associazioni. Un'Italia in via d'estinzione.
E allora buon viaggio ai tre fuggitivi di Chinisia. E una sola raccomandazione: non lasciateci da soli con gli italiani.
Il malcontento era già diffuso sin dal mattino, quando i trattenuti della sezione degli africani erano stati trasferiti al porto per imbarcarsi sulla nave che li ha portati nei centri d'accoglienza della penisola. Ma la scintilla che ha fatto incendiare gli animi è stato la cacciata di alcuni giornalisti, che nel pomeriggio si erano avvicinati al centro per fare delle riprese. I militari li hanno invitati ad allontanarsi. E quando i reclusi hanno visto la scena, hanno inscenato una rumorosa protesta. Alcuni sono saliti sui tetti, altri hanno scritto su dei cartelli “Libertà” e tutti in coro hanno cantato lo slogan “Aiuto! Libertà!”. Dopodiché in massa hanno tentato di sfondare il cancello della recinzione del blocco senonché dall'altra parte si sono trovati gli agenti delle forze dell'ordine in tenuta antisommossa, pronti a caricare. Ne sono seguiti pesanti tafferugli, durante i quali è stata anche danneggiata un'auto. Alla fine degli scontri, si sono contati feriti sia tra gli agenti di Guardia di Finanza e Carabinieri, sia tra i reclusi. Un finanziere è rimasto ferito al setto nasale dopo essere stato colpito da una pietra al viso di rimbalzo. A lanciare la pietra nel mezzo della mischia, sarebbe stato, secondo una prima ricostruzione delle forze dell'ordine, proprio Nizar. Che per quell'affronto ha pagato con un pestaggio in piena regola. Ce lo hanno confermato due testimoni oculari.
Anche Nizar ieri infatti era lì a protestare in prima linea, probabilmente pensando alla moglie e al bambino che porta in grembo che lo aspettano da tre settimane fuori dalla gabbia. Anche alcuni dei reclusi dicono di averlo visto lanciare degli oggetti contro gli agenti. Ma questo non spiega l'accanimento contro di lui. È stato circondato dagli uomini della Guardia di Finanza e picchiato con calci, pugni e manganellate. “L'hanno portato via con la testa rotta, aveva il volto coperto di sangue” ci ha raccontato un testimone. Nessuno degli altri contusi è stato picchiato come lui. Alla fine l'hanno portato nei locali delle forze dell'ordine, dove non sappiamo cosa possa essere accaduto. Questa mattina sono venuti a prendere le sue poche cose in stanza e l'hanno portato via. Pare sia stato arrestato. Fortunatamente è seguito da un bravo avvocato che ci terrà aggiornati sul suo caso.
E intanto non ci sono notizie su un eventuale prossimo trasferimento dei tunisini reclusi a Lampedusa. Il che significa che un'altra rivolta come quella di ieri è possibile. La tensione resta alta. Il ministro Maroni o chi per lui non può pretendere che siano le manganellate o i farmaci tranquillanti a sedare la legittima richiesta di libertà di 200 ragazzi che non hanno commesso reato ma che da ormai 25 giorni sono rinchiusi in gabbia, il tutto – lo ripetiamo fino alla noia – senza che nessun giudice abbia convalidato il loro trattenimento, come richiesto per legge! E in centro giuridicamente non predisposto alla detenzione bensì all'accoglienza. Che aspettano i parlamentari a fare interrogazioni sul caso? Che aspettano gli avvocati a fare ricorsi? Che aspettano gli italiani a appoggiare da fuori le proteste di chi dentro è ingiustamente privato della propria libertà?
È anche per questo che tanto insistiamo sulle storie. Perché ci serve un nuovo immaginario. Serve un'Italia capace di indignarsi per ogni persona finita in gabbia per il reato di viaggio. Indignez vous direbbe un vecchio francese. Per Nizar, per sua moglie, e per il suo bambino. Perché non è possibile che nel 2011 in Europa esistano leggi che vietano a un padre di vivere accanto alla donna che ama e al suo bambino. Ma ci rendiamo conto di tutta questa violenza istituzionale?
Con il passaporto rosso dell'Unione europea giriamo il mondo e siamo i benvenuti. Con un passaporto verde tunisino viaggiare è reato. E una volta arrivati si vive come braccati. Si vive come i tre ragazzi che sono scappati due giorni fa dal centro di identificazione e espulsione di Chinisia (Tr). Persi nelle campagne trapanesi non sapevano cosa fare. Uno di loro si era ferito durante la fuga, tagliandosi col filo spinato. Ma avevano paura di andare al pronto soccorso. Paura di essere arrestati. E allora hanno chiamato una loro amica in Francia. E tramite il passaparola siamo riusciti a fargli raggiungere alcuni parenti in un'altra città italiana. Lì il ragazzo sarà curato e riprenderà il suo viaggio. Grazie all'altra Italia. Quella che non vuole le gabbie, quella che non respinge e che non riempie di manganellate chi chiede la libertà. L'Italia che accoglie. L'Italia del volontariato e delle associazioni. Un'Italia in via d'estinzione.
E allora buon viaggio ai tre fuggitivi di Chinisia. E una sola raccomandazione: non lasciateci da soli con gli italiani.