Aleppo, alunni della scuola di Mashhad |
Dietro un pentolone nero, un bambino su uno sgabello gira la nostra frittura. Stendiamo le mani verso il fuoco per riscaldarci un po'. Abbiamo passato la notte all'addiaccio, da una famiglia curda del quartiere, senza elettricità, senza riscaldamento, senza telefono e senza cibo. Dall'olio bollente sale il profumo dei falafel. Humus e ful sono già pronti, sul tavolo, accanto a un piattino di cipolle fresche, i peperoncini verdi e un kalashnikov. La televisione è sintonizzata sul canale di Stato, e i clienti ridono ascoltando la versione dei fatti secondo la propaganda del regime.
Fuori, per strada regna una strana calma apparente. I mercati nei vicoli sono pieni di gente e di merce. Frutta, verdura, carne, casalinghi. E lungo le strade principali il traffico scorre a rilento. Ai bordi di una rotonda, sono parcheggiati i minivan dei taxi collettivi. E i loro autisti si sgolano cercando clienti per le cittadine a nord di Aleppo, nelle zone liberate.
Per un attimo sembra tutto normale, ma è soltanto un'impressione. Te ne accorgi dai dettagli. Dalle macerie dei palazzi spappolati dai missili. Ce n'è uno in ogni strada. Dall'ossessività con cui ad ogni angolo la gente chiede ai ragazzi del quartiere se la via è sotto il tiro dei cecchini. E infine dai parchi. Dai parchi sì, perché non hanno più alberi. Dei giardini di Aleppo non è rimasto niente. Soltanto ceppi di legna alti al massimo dieci centimetri da terra. E anche quelli c'è chi si ostina a tagliarli, a colpi di accetta, per arrivare fino alle radici. Perché ogni pezzo di legno è buono per passare questo freddo e lungo inverno di guerra. Dopo sei mesi di combattimenti, senza elettricità e con il prezzo di gas e gasolio alle stelle, il legno è l'unico combustibile per riscaldare le case e per cucinare.
Guardando meglio nei parchi poi si scorgono anche le lapidi. Sì perché da alcuni quartieri raggiungere i cimiteri è troppo pericoloso. E allora i martiri vengono seppelliti direttamente nei parchi. L'ultima volta è accaduto a Bustan al Qasr, il 29 gennaio 2013, quando le acque del canale Qwayq hanno portato a galla i corpi di 80 civili giustiziati dal regime con un colpo alla testa e buttati nel fiume. Li hanno seppelliti in una grande fossa comune scavata nel parco. Poi hanno inchiodato tre tavole di legno insieme, ci hanno scritto a mano: “Il fiume dei martiri” e hanno sistemato la nuova insegna ai bordi del canale. Per non dimenticare.
Il fiume dei martiri è anche un confine, uno dei più pericolosi nella Siria di oggi. Per un tratto separa i quartieri di Aleppo controllati dal regime dalle zone sotto il comando dell'esercito libero. C'è un unico punto in cui si può passare clandestinamente e con enormi pericoli. Il passaggio avviene su un'asse di legno traballante, buttata alla meglio tra i due argini del canale. Da lì, con le scarpe inzaccherate di fango, centinaia di persone ogni giorno attraversano la linea del fronte. C'è chi va a trovare la famiglia, chi fa affari con il contrabbando, chi cerca rifugio presso il regime fuggendo dai bombardamenti a tappeto sulle zone insorte. E poi ci sono quelli come Abu Nur, che ogni mattina sfidano il tiro dei cecchini per andare a scuola, a insegnare.
Lui l'insegnante non l'ha mai fatto. Prima della guerra lavorava come ingegnere. Una vita facile. Classe media, trent'anni, un matrimonio felice, due splendide bambine di dieci e otto anni. Abu Nur era di quelli che: “Il regime no, ma nemmeno la guerra”. Anche perché la sua casa è nelle zone di Aleppo protette dall'esercito di Asad. Un giorno però la guerra gli ha bussato alla porta.
“Ricordi un mese fa, quando un Mig del regime ha lanciato due missili sull'università? Quel giorno un terzo missile ha colpito il palazzo di fronte a casa nostra. Le schegge e l'onda d'urto hanno mandato in frantumi le vetrate delle finestre. Io ero nell'altra stanza. Quando sono entrato ho trovato mia moglie e le bimbe sepolte sotto una montagna di vetri e calcinacci. Le ho sollevate da terra, non si erano fatte niente grazie a dio, neanche un graffio. Ma quel giorno ho promesso a me stesso che avrei fatto qualcosa”.
E così Abu Nur è entrato a far parte del movimento civile che nella semi-clandestinità sta riaprendo le scuole nei quartieri liberati di Aleppo. È lui a portarmi nella scuola del quartiere di Mashad. Da fuori non si direbbe una scuola. È un palazzo qualunque, in parte danneggiato da un mortaio, in mezzo a un anonimo vicolo. Man mano che saliamo le scale, si fa più nitido il vociare dei bambini. L'appartamento è al primo piano. Ogni stanza ospita una trentina di bambini. Banchi e sedie li hanno portati dalle scuole. Ma mancano quaderni, libri e materiale didattico. E come nel resto della città, l'elettricità va e viene. Al massimo un paio d'ore al giorno.
“L'esercito libero ha preso base in alcune scuole della città e questo ha reso tutte le scuole dei potenziali bersagli per l'aviazione del regime. Ne hanno già bombardate parecchie. Per questo non possiamo tornare nelle vecchie scuole. Se colpissero i bambini sarebbe un massacro. Così abbiamo cercato delle case vuote. Di privati. In ogni casa sistemiamo un centinaio di bambini, in tre o quattro stanze. I maestri sono tutti volontari. Non abbiamo finanziamenti. Molti di loro erano insegnanti prima. Altri danno una mano, come me. L'obiettivo è non far perdere l'anno scolastico ai bambini.”
Dalle finestre socchiuse, sopraggiunge l'eco delle sparatorie e dei mortai. Il fronte è a soli trecento metri di distanza. Ma i bimbi non battono ciglio. Ormai ci hanno fatto l'abitudine. Al contrario, si divertono a riconoscere e a imitare il suono delle armi. Il kalashnikov, il mortaio, i dushka, gli rpg, l'antiaerea, i Mig, i Grad. Come se fosse tutto un gioco, una specie di Vecchia Fattoria ai tempi della guerra.
Mariam è seduta in prima fila. Fissa le frasi scritte alla lavagna con tutta la curiosità dei suoi dieci anni. Poi, con le altre bambine della classe, ripete in coro le parole della maestra. “The man who is there is my father. People that eat a lot get fat”. Sul suo banco ci sono appoggiati tre disegni. In uno c'è una principessa vestita con un lungo abito azzurro ricamato d'oro, ha i capelli al vento e sorride. Nell'altro c'è una torta gialla e un girotondo di bambini. Nel terzo c'è una bimba che scrive su un quaderno, davanti a una candela accesa. Una candela come quella che illumina la classe quando va via la corrente.
“Gli facciamo disegnare delle cose belle, per farli evadere dal contesto della guerra”, mi spiega la sua maestra d'inglese. Sono le dieci del mattino. La prossima ora c'è religione. Poi matematica e arabo. E così anche questa mattina sarà volata e Mariam potrà far finta che là fuori sia tutto normale. Come nei suoi disegni. E che nelle strade di Aleppo non si aggiri l'angelo della morte. Ma soltanto principesse.
La guerra però non è un gioco. Bastano poche ore per ricordarselo. Non serve nemmeno cambiare quartiere. Succede quello stesso pomeriggio, dopo pranzo, a duecento metri dalla scuola. Succede che un aereo militare del regime, un Mig, lancia due missili spappolando un intero palazzo. I morti sono almeno trenta e sono tutti civili. Vedo le immagini alla sera, su youtube, davanti a una tazza di tè nel vecchio biscottificio dove passo la notte con un milizia kurda dell'esercito libero siriano.
È il solito video in bassa definizione, girato sul posto dai mediattivisti siriani. Una folla di cittadini corre sul luogo del bombardamento a scavare con le mani nude tra le macerie ancora fumanti in cerca dei superstiti. Estraggono prima il cadavere di un uomo, poi un altro. Poi un bambino. Poi una bambina. Sporchi di calcinacci e di sangue. Sono morti. È straziante. Non so se in quel palazzo al momento dell'esplosione ci fosse anche la piccola Mariam. Posso solo sperare di no. Ma so di certo che c'era la sua principessa. E le principesse di tutti i bimbi di Aleppo. A cui la guerra ha rubato l'innocenza.