tratto da Arte e Libertà, Al Fann wa al Hurriya
Diciotto mesi fa erano a Homs, Aleppo e Damasco, tra i primi organizzatori di quello che delle primavere arabe è stato il più duraturo, creativo e organizzato movimento non violento e laico. Laico sì perché Khater e Khalaf sono sunniti, Rita e Louise alawite, Maan druso, Fadi cristiano e Farzand curdo. E perché Wassim che è ateo, è entrato per la prima volta in una moschea durante la rivoluzione, perché le moschee erano gli unici luoghi dove ci si poteva aggregare in massa, il venerdì durante la preghiera, per poi uscire in una manifestazione prevenendo le forze di sicurezza.
tratto da Arte e Libertà, Al Fann wa al Hurriya
Diciotto mesi fa, nessuno di loro avrebbe mai immaginato che la rivoluzione sarebbe passata alle armi. Wassim all'inizio era convinto che il regime sarebbe caduto nel giro di qualche settimana, come era successo in Tunisia e in Egitto. E la sua unica preoccupazione quando venne arrestato nell'aprile 2011, era che non avrebbe vissuto quel momento storico con i suoi compagni, perché in carcere. Col senno di poi, ammette di aver peccato di ottimismo.
tratto da Arte e Libertà, Al Fann wa al Hurriya
Di combattere con l'esercito libero non ne vuole sentire parlare. Wassim è convinto che la guerra sia stata una scelta sbagliata. Dettata dai paesi del Golfo e dagli americani per sostituire Bashar con un governo islamista amico e indebolire così Hezbollah e l'Iran. All'inizio aveva pensato di andare a documentare i massacri del regime e di fare un film sul ruolo della minoranza alawita nella rivoluzione, ma ha cambiato idea dopo la morte sotto le bombe di due suoi cari amici registi: Basel e Tamer.
tratto da Arte e Libertà, Al Fann wa al Hurriya
Anche Wassim per alcuni mesi ha lavorato sul fronte dell'informazione. Era a Istanbul allora ed era responsabile della formazione giornalistica degli attivisti siriani, e del contrabbando in Siria di telecamere, computer, software e modem satellitari. Ma quelli sembrano giorni lontanissimi.
“Oggi il movimento civile non è più in grado di lavorare. Se in una città c'è l'esercito non possiamo fare nulla. Quando si spara, le voci delle esplosioni coprono la nostra voce. Ci resta solo facebook. Abbiamo artisti, musicisti, poeti, disegnatori. La prima cosa per noi è l'arte, vogliamo mostrare all'estero che la rivoluzione siriana non è solo la guerra. Che c'è un pensiero, che ci sono dei sogni”.
tratto da Arte e Libertà, Al Fann wa al Hurriya
“Alcuni egiziani mi chiedono come andare in Siria per combattere il jihad e difendere i sunniti. Pensano che la guerra sia tra sunniti e sciiti, non hanno capito che è una rivoluzione. E tutto questo a causa delle notizie diffuse in modo distorto da Al Jazeera e Al Arabiya, i cui editori, Arabia Saudita e Qatar, hanno una chiara agenda politica”.
Un'agenda che spaventa Wassim e gli altri attivisti del movimento civile. Dopotutto gli unici che stanno finanziando l'esercito libero sono governi islamisti. L'Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia. E poi ci sono gli Stati Uniti che appoggiano i Fratelli musulmani, come hanno fatto in Egitto. L'esercito libero siriano non ha un'agenda islamista, ma ha un dannato bisogno di soldi e di armi.
E lo stesso sta facendo la propaganda del regime. Che ormai si tiene in piedi soltanto grazie a una sapiente costruzione della paura.
“Quando è uscito il video di alcuni combattenti dell'esercito libero di Feriana che tagliavano la gola ad alcuni alawiti sospettati di essere shabbiha, il regime ha mostrato le immagini in tv dicendo ecco come i terroristi sgozzeranno gli alawiti e i cristiani se vincono la guerra.”
Syria 2012, Juan Zero Artist
Grazie a quella paura, secondo Wassim, un 25% del popolo sostiene ancora con il regime. E un altro 50% - la maggioranza – semplicemente non prende posizione. Odiano il regime, ma hanno paura di esprimerlo. Oppure hanno paura della piega che sta prendendo la rivoluzione da quando è iniziata la guerra.
Il dottor Farzand è uno di loro. È un medico curdo di Aleppo sulla quarantina, padre di due bambini. Un anno fa era sceso in piazza contro il regime. Oggi ha lasciato la Siria per mettere in salvo la famiglia. Parla con le lacrime agli occhi, soppesando ogni singola parola, come se ammettesse per la prima volta la sconfitta.
“Un anno fa avevamo un sogno. E non era la fine del regime. Il nostro sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni di dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la paura, avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La fine del regime era un passo necessario, ma non era il nostro obiettivo. Era il primo passo di un lungo cammino che doveva portarci a un futuro di libertà, diritti e giustizia. La guerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che cada il regime se poi arriva un altro regime. Non voglio che cada il regime se deve essere versato il sangue di decine di migliaia di innocenti. La guerra è una follia, per uccidere un uomo bisogna essere malati. Ho paura di quello che sta succedendo nel mio paese”.
Il no alla guerra dei pacifisti siriani non è un atto di accusa contro l'Esercito libero, ma piuttosto l'amara consapevolezza di come l'inaudita violenza del regime abbia trascinato il paese in una spirale di violenza che nessuno sa dove porterà. A parlare sono rimaste soltanto le armi e gli uomini di religione. Contro i quali Maan, un altro attivista esiliato della compagnia del Cairo, non si risparmia:
"Il Corano è pieno di pagine che sono un inno alla vita. È scritto che chi uccide un uomo è come se avesse ucciso l'intera umanità. Ma gli uomini di religione in Siria vedono soltanto i versetti del jihad. E i ragazzi delle campagne credono veramente alle loro parole. Credono che se moriranno da martiri in guerra finiranno dritti in paradiso circondati da splendide vergini. E finiscono per preferire la morte a una vita miserabile come quella sotto una guerra. Non si rendono conto che è un suicidio collettivo, stanno mandando a morire i nostri migliori ragazzi.”
Ma d'altronde non c'era da aspettarsi altro. Abbandonati dalla comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a torture e massacri, difficilmente i siriani avrebbero potuto reagire altrimenti. Sangue chiama sangue. È la più antica legge del mondo. E al popolo siriano non è rimasto che stringersi alle armi e alla religione. Non più per fare la rivoluzione. Ma semplicemente per salvarsi la vita.
5/5 FINITO
Estratti di questo articolo sono stati pubblicati in Svizzera e Germania su Amnesty International Journal. In Italia è stato espressamente rifiutato - tra gli altri - da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto, viste le condizioni di sfruttamento che praticano
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