19 July 2011

Rivotril, suicidi e rivolte. Che succede in via Corelli?


Nel 2010 è stato scosso da almeno sette rivolte e da altrettante evasioni. Poi non se ne è più saputo niente. Da un lato perché ai reclusi è stato proibito l'utilizzo dei telefonini per chiamare all'esterno e raccontare alla stampa quello che succede. Dall'altro perché gli operatori dell'ente gestore, la Croce rossa, continuano a preferire l'omertà e il posto fisso a un briciolo di umanità. Adesso però sembra aprirsi una breccia nel muro di silenzio che da un anno circonda il centro di identificazione e espulsione (Cie) di Milano. Qualcuno è uscito e ci ha raccontato. La storia dell'ennesimo padre di famiglia, cresciuto in Italia e segnato a vita da un precedente penale. I gesti disperati di tre tunisini che tra aprile e maggio hanno provato a togliersi la vita e di altri 7 che hanno incendiato un'intera sezione. Gesti di disperata protesta che ricordano il tentato suicidio di martedì scorso del marocchino a cui è stata prorogata la detenzione oltre il sesto mese. Quante tragedie dobbiamo ancora sopportare prima che tutta questa violenza istituzionale abbia fine? 

Dalla testimonianza di un ex detenuto del Cie di Milano trasferito al Cie di Torino  

Suo figlio è nato ad Alessandria nel 1998. Oggi ha 13 anni e vive con la madre. L'ultima volta Fatih lo ha visto nel 2005. Poco prima dell'arresto. Lo presero a Brescia in una retata a casa di un altro tunisino, un conoscente, dove si era fermato a dormire quella notte. Nell'appartamento la polizia trovò partite di droga destinate allo spaccio in città. Inutile dirgli che lui non era che un cameriere di una pizzeria sul lago di Garda. E che era lì di passaggio. Ancora oggi, a distanza di anni, continua a proclamarsi innocente. Intanto però in galera si è fatto 6 anni e 2 mesi. E appena uscito dal carcere è finito dritto al centro di identificazione e espulsione (Cie) di Milano.

Era lo scorso mese di marzo. Quando gli chiedo le date, fa una piccola pausa per concentrarsi, ma poi risponde che non si ricorda. La memoria non è più la stessa. “Stiamo perdendo la testa qua dentro, stiamo perdendo la memoria”. Sarà lo stress, saranno gli psicofarmaci. Anche lui ne prende. Trenta gocce di Rivotril, ogni sera. In vita sua non ne aveva mai fatto uso. Faceva una vita normale. In Italia era arrivato a 19 anni, nel 1992, quando ancora dalla Tunisia non c'era nemmeno il problema dei visti. Aveva un lavoro, una famiglia. Poi gli è crollato tutto addosso, come un castello di carte. E adesso sente solo il bisogno di sedare la mente. Dopotutto gli psicofarmaci al Cie di Milano - e non solo - li prendono tutti. Basta chiedere.  Non servono visite né certificati medici.

“Più ne vuoi e più te ne danno. All'inizio fai uno sforzo perché vedi che sono tutti fatti, sono tutti esauriti per quella roba. Ma poi è più forte di te. E quando inizi ti dà dipendenza. Io li prendo ancora anche qui a Torino. Per non pensare. Ho già sofferto tanto. Sei anni in carcere senza colpe. E adesso ancora sei mesi... Devo curarmi l'ernia al disco, vedere mio figlio, sistemare le mie cose... e invece sono qui a sprecare il mio tempo ancora e ancora e ancora... Senza sapere cosa sarà di me se in parlamento passa la nuova legge. Se non prendi un po' di quelle medicine, pensi troppo, e rischi di fare una pazzia”.

Una pazzia già, come il ragazzo marocchino di Brescia, che lo scorso 12 luglio si è impiccato quando ha saputo che non soltanto non sarebbe uscito allo scadere dei sei mesi di detenzione, ma che avrebbe dovuto fare altri due mesi. Forse non ha trovato le parole per spiegarlo alla moglie e ai bambini, ormai convinti di poterlo presto riabbracciare. Il suo gesto disperato non è il primo e non sarà l'ultimo.

Lo scorso 7 aprile un ragazzo tunisino si era impiccato, sempre al Cie di Milano, con la cintura di un accappatoio, e anche in quel caso era stato salvato per poco. E a maggio altri due ragazzi tunisini avevano tentato di togliersi la vita in via Corelli dandosi fuoco. Entrambi facevano parte del gruppo di tunisini sbarcati a Lampedusa nei mesi precedenti. Di loro non s'è mai saputo niente. Ma il nostro testimone ci ha raccontato nel dettaglio cosa è accaduto quel giorno.

Il primo si è avvolto sulle spalle una coperta intrisa d'olio e l'ha incendiata. Chi l'ha visto portare via in infermeria racconta delle pelle ustionata che si staccava a pezzi dal corpo insieme alla coperta. L'altro ragazzo ha usato dei fazzolettini di carta. Li ha unti con dell'olio e se li è messi sulla testa, poi li ha accesi. Anche lui è stato portato via dalla cella mezzo bruciato. I due sono stati immediatamente trasferiti dal Cie per essere ricoverati, ma non sappiamo in quale ospedale siano finiti, né se siano ancora in Italia.

Altri invece hanno preferito bruciare direttamente la sezione dove erano reclusi. I fatti risalgono al 2 maggio. Grazie al nostro testimone, oggi sappiamo che i protagonisti della rivolta furono 11 tunisini coinvolti nella rissa del 26 aprile scorso davanti al terminal traghetti nel porto di Genova, dove la compagnia dei portuali genovesi (Culmv) aveva dato ospitalità in quei giorni a circa 150 tunisini sbarcati nei mesi precedenti a Lampedusa, tutti titolari del permesso di soggiorno di sei mesi concesso per decreto dal governo italiano a tutti i tunisini sbarcati prima del 5 aprile, con l'eccezione di quelli con precedenti penali. Quel giorno, furono arrestati in cinque. Altri 11 furono denunciati, privati del permesso di soggiorno e spediti al Cie di Milano per essere rimpatriati.

Era il 26 aprile. La rivolta e l'incendio sono arrivati soltanto dopo una settimana, il 2 maggio. Tutto sarebbe nato da una telefonata ricevuta da uno dei reclusi, che veniva informato dalla Tunisia di un improvviso malore della madre. Questa sarebbe stata la scintilla che avrebbe incendiato gli umori già tesissimi dei tunisini privati della libertà. Nella rivolta sarebbero stati distrutti vetri e finestre e incendiati materassi e coperte. Il giorno dopo, la polizia si era limitata a dire che c'erano stati 7 arresti per danneggiamento aggravato e incendio doloso. Oggi sappiamo che ci fu dell'altro. Il nostro testimone oculare racconta di reclusi presi a manganellate sulla testa, e di un tunisino a cui avrebbero rotto il naso con un colpo in faccia durante il pestaggi. L'ennesimo pestaggio di cui non avevamo finora avuto notizie. Come stupirsene d'altronde ai tempi della censura sui Cie ?

Ps Per tutelare la privacy e la sicurezza della nostre fonte, abbiamo usato un nome di fantasia, Fatih per l'appunto