19 April 2011

Liberi come il vento. Si scrive Ventimiglia si legge modernità

Con Nizar durante la manifestazione a Ventimiglia
Milud ha le mani tagliate. Gira il caffè seduto al tavolo del bar della stazione e non la smette di ridere raccontando le disavventure della notte passata con la Gendarmerie francese, che lo ha fermato senza documenti su un treno per Nice ma che non è riuscita a impedirgli di scappare e di tornare a Ventimiglia camminando lungo i binari. È stato nelle due gallerie che si è fatto male. Avanzava a tentoni nel buio pesto e ogni due passi inciampava e cadeva per terra, oltretutto col rischio di essere investito da un treno. Per lui come per tutti gli altri, oggi è l'ultimo giorno utile per chiedere i permessi di soggiorno temporanei di sei mesi, previsti per tutti i tunisini arrivati a Lampedusa tra il primo gennaio e il cinque aprile. Ma Milud probabilmente ne rimarrà fuori. Al commissariato di Ventimiglia gli hanno detto di andare alla questura di Savona. Ma lui non ha la più pallida idea di dove sia Savona né ha i soldi in tasca per comprarsi il biglietto. A differenza degli altri, in Francia non ha nessuno che lo aiuti. Eppure tutto questo non sembra preoccuparlo. Forse i suoi 18 anni di età non sono abbastanza per rendersi pienamente conto della dura realtà che lo aspetta. Ma di certo sono abbastanza per sentirsi finalmente libero per aver fatto quello che in Tunisia una intera generazione sogna da anni: viaggiare in Europa.

A volte mancano le parole per descrivere questo senso di libertà. E allora Imad Belhadj prende a prestito quelle del poeta più amato della Tunisia: Abu-l-Qasim Chebbi. La sua “Canzone alla vita”, del 1933, l'avevo già sentita spesso declamare nelle piazze della rivoluzione a Tunisi e al Cairo. Invece Imad ne declama un'altra, del 1929, "Al figlio di mia madre". E in quei versi trova le parolee per spiegare la felicità che c'è nei suoi occhi sotto il sole di questa bella giornata a Ventimiglia.

"Sei nato libero come il sospiro della brezza
libero come la luce del mattino nel cielo
...
E allora perché accetti l'umiliazione delle catene
e pieghi la fronte davanti a chi ti ha incatenato?"


Nonostante la totale incertezza del futuro, Imad si sente libero. Libero e liberato, “come la luce del mattino nel cielo”, “come un uccello nel vento”. Sulle sue labbra queste parole hanno un suono ancora più forte. Perché prima di partire, Imad frequentava la facoltà di ingegneria meccanica dell'università di Sidi Bouzid, la città martire di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che immolandosi col fuoco lo scorso 17 dicembre dette il via ai moti che hanno portato alla caduta del regime di Ben Ali. “Guarda gli uccelli – mi dice – viaggiano senza passaporti. Guarda la luce del sole, nessuno la può fermare. Noi tunisini siamo come la luce del sole, siamo come gli uccelli nel vento, non ci sono frontiere né polizia che ci fermerà. È il poeta Chebbi che ce lo dice, siete nati liberi, andate dove volete andare”.

Mentre Imad parla, il signor Brahim lo tiene sotto braccio e lo guarda con affetto. Sono due generazioni a confronto. Brahim ha 45 anni e potrebbe essere suo padre. Sono arrivati a Lampedusa sulla stessa barca, insieme a altri 30 passeggeri, tutti vicini di casa di un unico quartiere di Bir Ali Ben Khalifa, un paese di 5.000 abitanti della provincia di Sfax. “Questi ragazzi non hanno più paura – dice con fierezza e semplicità il signor Brahim -. Hanno conosciuto soltanto la dittatura con Ben Ali: pregavi e andavi in prigione, bevevi e andavi in prigione lo stesso. Ma si sono ribellati e adesso vogliono la libertà. Noi ormai siamo invecchiati nella dittatura, ma questi ragazzi no! Loro e i miei tre figli devono vivere nella libertà adesso”.

Libertà. Brahim, detto gangster, l'ha scritto in arabo, inglese e francese su un cartello durante la manifestazione di domenica davanti alla stazione di Ventimiglia: “Freedom, Hurriya, Liberté”. E sullo sfondo ha disegnato il mare e una barca, “feluca”, come si dice anche in arabo. Oppure "babour", che viene da vaporetto, e che appena lo dico, Hamza e Aymen si mettono a cantare il ritornello di "Partir Loin", la canzone degli harraga, "Yal babour ya mon amour, kherrijni min la misère", barca amore mio portami fuori dalla miseria. L'hanno cantato per anni. E adesso il sogno è diventato realtà. Per risvegliarsi e scoprire che non era il paradiso c'è ancora tempo. Intanto a prevalere è la felicità per avercela fatta. La Francia è lì davanti e questa è la conquista più importante.

Nizar non può che essere d'accordo. Visto che una frontiera lo tiene lontano dal padre fin dalla nascita, nel 1986. Per 25 anni si è abituato a vederlo un mese all'anno, d'estate, quando prendeva le ferie dal lavoro in Francia. E adesso è venuto a trovarlo. Del viaggio in barca non gli ha detto niente fino al suo arrivo in Italia. Tanto suo padre gli avrebbe detto di no, per paura che morisse in mare. Quel giorno è andato in posta e ha ritirato i risparmi dal conto. Dalla sua città, Kef, sono partiti metà dei suoi amici. Tutti sulla stessa barca. C'è suo cugino Abderrahim, studente universitario di economia e centrocampista della squadra di calcio del Janduba. Ci sono Naim e Ayman, che per partire hanno chiuso l'officina dove lavoravano come meccanici. E poi c'è il fruttivendolo del quartiere, Issam.

Prendo il treno delle 10:47 per Nice con loro: Nizar, Abderrahim e Issam. Alla prima stazione francese dopo il confine, a Menton, salgono tre poliziotti della Gendarmerie. Controllano i documenti a chiunque abbia una faccia che sappia di arabo. Ma alla fine non ci sono problemi. Evidentemente l'ordine è di lasciar passare chi ha il permesso di soggiorno italiano. Come dire che al di là delle dichiarazioni al vetriolo tra Italia e Francia, di fatto la frontiera è aperta. Il nostro viaggio prosegue fino a Nice. Da lì, Nizar e Abderrahim proseguono per Lyon. Per Issam invece la strada è ancora lunga. Il fratello l'aspetta a Parigi. Ormai è fatta, il peggio è passato. E passerà presto anche per Burhan.

Lui a Ventimiglia è arrivato oggi da Napoli. Con una laurea in economia e gli occhi rossi dal sonno. La sua però non è soltanto stanchezza fisica. “Ho la testa pesante – dice – da quando sono arrivato non mi sento più me stesso. Se avessi saputo che sarebbe stato così, non sarei partito”. Per quello che al fratello rimasto a Tunisi dice di non imbarcarsi. Alla moglie invece dice di non preoccuparsi. Lei è rimasta da sola a casa, a Zaghouan, con la bambina di un anno e mezzo. Suo padre invece è di là dal confine, a Nimes. In Francia c'ha passato vent'anni e adesso è un uomo invecchiato, e che a 60 anni dopo una vita di lavoro nei campi merita il suo riposo. Burhan invece è ansioso di sentirsi responsabile di se stesso e della propria famiglia. Anche lui come gli altri crede nella rivoluzione, ma non ha tempo per aspettare i risultati del cambiamento. Per quello sette mesi fa era andato a lavorare in Libia. Ma con la guerra, Tripoli è diventata un inferno. E allora eccolo qua. A cercare di nuovo il suo posto nel mondo. Lui che anziché Chebbi preferisce citare l'Amleto: To be or not to be.

La maturità di Burhan, l'incoscienza di Milud, la sensibilità di Imad, lo spirito paterno del signor Brahim e l'euforia dei ragazzi di Kef - Nizar, Abderrahim, Naim, Aymen, Hamza, l'altro Aymen e Issam - in fondo hanno in comune proprio questo. L'Amleto. Essere o non essere. Essere in viaggio per essere, per divenire. Per scegliere chi diventare, per cambiare il proprio destino. E questa si chiama modernità. Dopotutto lo scriveva già nel 1.400 Pico della Mirandola. Che nel "Discorso sulla dignità dell'uomo" si reinventava in chiave umanista il racconto della creazione e faceva dire dal suo dio ad Adamo: "Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto". Eccola la modernità. Cioè la volontà di essere altro da sé, fuori da sé, di modellare come uno scultore la propria vita e la propria identità. E allora Burhan, Milud e gli altri sono la modernità per definizione. Coloro che scelgono di cambiare la propria sorte, il proprio destino. Con un gesto ribelle e rivoluzionario. Bruciando una frontiera, harraga, come si dice in arabo. 

Nel 2011 la mobilità è parte imprescindibile della dimensione della modernità. Soprattutto per noi giovani. Al punto che in Europa investiamo milioni di euro nell'Erasmus perché vogliamo che i nostri studenti viaggino più possibile e si abituino a essere cittadini del mondo. Gli stessi valori circolano anche sull'altra riva di questo mare. E forse in maniera più forte. Dal momento che - come dimostrano le storie - ogni famiglia ha un parente in Europa, e quindi un legame. Riconoscere la libertà di circolazione significa riconoscere anche questo. Che non c'è bisogno di essere manodopera o profughi per spostarsi da una parte all'altra del mondo. Basta essere figli dei nostri tempi per avvertire il bisogno di andare via e diventare altro da sé. Riconoscere che in fondo tra le differenze ci assomigliamo molto, significa anche riconoscere che non esistono popoli civili e popoli barbari. E che abitiamo tutti la stessa modernità. E che è profondamente ingiusto che i ragazzi della riva sud vadano a morire in mare per andare a trovare i parenti a Parigi. Mentre noi coi passaporti rossi in aeroporto sbuffiamo per i cinque minuti persi alle file dei controlli dei passaporti all'aeroporto di Tunisi. 


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