09 February 2009

Capitan vergogna: uccise migrante in mare, chiesto l'ergastolo

Disegno di Stefania Infante
MODICA, 9 febbraio 2009 - Quando Mohamed Ahmed Abdissalam telefonò al fratello, a Tripoli, gli rispose il coinquilino Garane Alì. “Sanwà è partito la settimana scorsa”, gli disse. Mohamed rimase in silenzio. Dagli Stati Uniti, dove viveva, chiamava ogni due settimane Sanwà. Lo avevano aiutato con i soldi a partire da Gaalkacyo, in Somalia, e a attraversare il deserto per arrivare in Libia. Se era a Lampedusa perchè non lo aveva ancora avvisato? “È morto”, aggiunse dopo un attimo di silenzio Garane. Lo aveva saputo da una donna somala che aveva chiamato in Libia qualche giorno prima, dall’Italia. Mohamed non chiese altro. Riagganciò e corse a comprare un biglietto per Roma, sicuro che avrebbe ritrovato il fratello.

Sanwà partì dalle coste libiche la notte tra il 6 e il 7 gennaio del 2008. Su un gommone. Erano circa 60 persone, somali e nigeriani. Le donne stavano al centro dell’imbarcazione per ripararsi dagli spruzzi del mare. Quella stessa mattina, mentre il gommone usciva dalle acque territoriali libiche diretto a nord, il peschereccio pugliese Enza D levava l’ancora dal porto di Siracusa per andare a pescare a sud di Lampedusa. Alla terza notte di navigazione, sul gommone erano rimasti senza gasolio. Con il poco carburante rimasto, si avvicinarono a un peschereccio, per chiedere aiuto. Quel peschereccio era l’Enza D, che poco distante, alle prime luci dell’alba, stava salpando le reti. Giunto sottobordo, il gommone spense il motore, e i passeggeri iniziarono a chiedere aiuto, in inglese. Ripetevano “diesel” agitando in aria la tanica vuota.

A un tratto uno di loro si alzò in piedi e si aggrappò al bordo dell’imbarcazione, con le poche forze rimaste. Uno dei marinai corse a aiutarlo. Lo teneva stretto per il giubbotto, con entrambe le mani, finché non riuscì a issarlo a bordo. Intanto il comandante aveva acceso i motori e si stava allontanando dal gommone prima che ne salissero altri. L’uomo a bordo era Sanwà. Giaceva a terra implorando aiuto con un filo di voce, mentre il comandante Ruggiero Marino correva avanti e indietro dalla cabina alla poppa. Continuava a gridare ai suoi uomini: “Qua passiamo tutti dei guai!”. Pochi minuti dopo i marinai udirono il tonfo in acqua. Qualche disperata bracciata e Sanwà scompariva per sempre, trascinato a fondo dal peso dei vestiti ammollati. I marinai non volevano credere a quello che avevano appena visto. Alcuni scoppiarono a piangere come dei bambini, altri andarono a nascondersi in coperta. Nessuno di loro era stato in grado di fermare il capitano. Ruggiero si rifece vivo soltanto dopo un paio d’ore. Bisognava calare le reti. La pesca riprendeva.

È passato un anno da allora, e gli avvocati di Ruggiero hanno chiesto il rito abbreviato. Tutte le testimonianze sono contro di lui. Quelle dei profughi e quelle dei marinai. L’accusa è di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, e di omissione di soccorso. Il processo si è aperto il 6 febbraio 2009 al Tribunale di Agrigento. Il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo. Ruggiero non ha mai ammesso di aver ucciso Sanwà. Ha detto però che temeva “rogne”. Che con un “clandestino” a bordo, gli avrebbero sequestrato il peschereccio e avrebbe perso tre o quattro giornate di lavoro. Basterà una sentenza a dare pace al signor Mohamed Ahmed Abdissalam, partito dagli Usa per riabbracciare il fratello e finito a testimoniare al processo per il suo omicidio?

Il primo grado di giudizio si è concluso con la condanna
di Ruggiero Marino a 12 anni di carcere per omicidio volontario