04 September 2008

In fuga dal Kurdistan, da 10 anni bloccati nelle SBA a Cipro.

AKROTIRI, CIPRO – Era il 1998 e migliaia di profughi kurdi sbarcavano sulle coste calabresi in fuga dalle persecuzioni in Iraq, Siria, Iran e Turchia. Tra il 1980 e il 1999 l'esercito turco aveva cacciato oltre 2 milioni di kurdi da 3.428 villaggi poi distrutti. E nel 1988 Saddam Hussein aveva sterminato con armi chimiche 5.000 persone nella città kurda di Halabja.


Il 12 dicembre del 1998 atterrò a Roma addirittura Abdullah Öcalan, il leader del Partito dei lavoratori kurdi (Pkk) in rivolta dal 1984 nel sud est della Turchia. Chiese asilo politico, ma il governo D’Alema non gli offrì protezione e il 15 febbraio 1999 fu catturato dai servizi segreti turchi a Nairobi, per poi essere trasferito nell’isola prigione di İmralı dove sta tuttora scontando l’ergastolo.

Non tutti i kurdi però raggiunsero la meta. Il 16 ottobre 1998 un vecchio peschereccio con 75 passeggeri a bordo, partito dal Libano, ruppe il motore e fu costretto a sbarcare sulla costa cipriota. Attraccarono sulla punta più a sud dell’isola. Akrotiri. Che allora come oggi era sotto il controllo dell’autorità britannica. Fu la loro disgrazia.

Mappa di Cipro. In rosa le SBADieci anni dopo, 60 dei 75 passeggeri sono ancora bloccati a Dhekelia, una delle due Sovereignity Bases Areas (SBA) di Cipro, postazioni mantenute sotto l’autorità inglese dopo l’indipendenza dell’isola, ex colonia di sua maestà, nel 1960. Due fazzoletti di terra, che in tutto coprono una superficie di 250 km quadrati e ospitano una popolazione di circa 3.500 abitanti, per lo più militari e funzionari inglesi.

“Quando andrò in paradiso, dio mi dirà di ritornare sulla terra, perché non ho una nazionalità”. Mustafà J.S. è nato il 3 gennaio 1974. Sulla stropicciata carta d’identità siriana, alla voce nazionalità, ha scritto “stateless”. È nato e cresciuto in Siria, ma ufficialmente non è cittadino di nessuno stato. La storia della sua famiglia ha inizio nell'Ottocento, quando un ragazzo armeno lasciò la Turchia per trasferirsi in un villaggio della Siria abitato da kurdi.

Bambini nella SBA di Larnaca, Elisabeth CosimiFin da bambino Mustafà ha conosciuto il disprezzo, a scuola e per strada, nella città di Al Hasakah, nella Siria orientale. A dodici anni, incoraggiato dal fratello maggiore, inizia a suonare il bouzouki, lo strumento a corde tipico della musica greca e di tutto il vicino oriente. In pochi anni diventa un maestro. È ricercato in ogni serata. Ci sono periodi dell’anno che passa tre mesi consecutivi in tournée. Essendo stateless è tutto più difficile. Perché ufficialmente non può lavorare né spostarsi dalla sua regione. Si appoggia ai documenti degli altri componenti del gruppo. Sono tutti kurdi. Fanno serate con musica araba ma partecipano anche ad eventi politici in cui rispolverano le musiche tradizionali kurde.

Nel marzo del 1997, in occasione dei festeggiamenti del Nevroz, il capodanno kurdo, nonostante i timori, accettano di suonare in una piazza di Al Hasakah. Alla fine del concerto, appena sceso dal palco, alcuni poliziotti lo buttano a terra e iniziano a colpirlo davanti ai presenti. Poi lo portano via. Viene trattenuto 72 ore al Commissariato di polizia. Tre giorni di pestaggi e torture. Un amico glielo aveva detto. Il dolore più forte lo provi nei primi cinque minuti, ma se riesci a tenere il controllo per la prima mezz’ora di botte, dopo non senti più niente. Fu così. Lo picchiano in quattro agenti, per otto ore consecutive. Gli chiedono i nomi dei leader della resistenza kurda. Lui dice di non sapere niente. A un certo punto iniziano a colpirlo con un tubo nero di gomma. Lui riesce a strapparglielo di mano e inizia a colpirsi da solo. “Ci penso da solo a ammazzarmi se è quello che volete, io non so nulla!”.

Donna irachena nella sua casa nella SBA di Larnaca, Elisabeth CosimiMe lo immagino. Mustafà ha il fisico di un uomo forte e di una fibra tenace. I muscoli di un muratore, la voce bassa e le vene del collo che si gonfiano facilmente di rabbia. Anche adesso che siamo seduti sul divano di casa sua a Dhekelia.
Appena saputo dell’arresto, il padre pagò 4.000 dollari a un ufficiale affinché pagasse i poliziotti in turno perché gli risparmiassero le torture più violente. Tre giorni dopo venne rimesso in libertà. Prima di tornare a camminare ci vollero due mesi. I piedi erano distrutti. Li avevano massacrati con le manganellate sulla pianta del piede. Era così gonfi che non entravano più nelle scarpe. “Passai dal 43 al 57!” dice scherzando Mustafà. Subito dopo però si fa cupo in volto. Ricordare gli fa male. Un amico kurdo qui alla SBA non riesce più nemmeno a fare pipì – dice sottovoce – e ha problemi di erezione, a causa delle torture con scariche elettriche al pene e ai testicoli subite nelle carceri siriane.

Mustafà voleva smettere di suonare. Disse agli amici che avrebbe lasciato il gruppo. Ma loro insistevano e lo convinsero a tornare sul palco. Così fece. Era il primo maggio del 1998. Festa dei lavoratori. Il partito comunista siriano aveva organizzato un grosso evento a Al Hasakah. Mustafà non risparmiò critiche alla Siria e ricordò i 5.000 martiri di Halabja, in Iraq, gasati dall’aviazione di Saddam Hussein nel 1988. Appena finito di suonare, rientrando a casa, a piedi, Mustafà vide tre auto della polizia sotto casa. Corse da un amico e fece mandare un ragazzino a vedere cosa stesse succedendo. Il messaggio della madre era chiaro: scappare. Mustafà si rifugiò in un paese vicino, dalla sorella del padre. Lo zio lo aiutò a fuggire. Prima Damasco, poi Beirut, in Libano. E da lì Tarabulus da dove si imbarcò per l’Italia per poi ritrovarsi bloccato a Cipro.

Ancora oggi Mustafà non può ritornare in Siria. Tanto più che adesso ha una moglie e due figli. Il bambino, Ibrahim, è nato nella SBA. La bimba, Fatma, a Cipro. Nemmeno loro hanno una cttadinanza. E sulle carte d’identità dei genitori c’è scritto “nazionalità incerta”. La moglie, Pawkee, classe 1972, viene dalla Birmania. Era a Cipro come lavoratrice domestica, poi ha perso lavoro e documenti e ha chiesto asilo. Fino al 2004, prima dell’ingresso di Cipro nell’Ue, Mustafà non poteva uscire dalla base, né poteva lavorare. Finalmente, nel gennaio del 2007, dopo oltre otto anni di attesa, è stato riconosciuto come rifugiato dallo stato cipriota. Nel 2004 infatti Cipro ha firmato un memorandum d’intesa con le SBA per farsi carico dei circa 60 richiedenti asilo nelle basi inglesi e dei 16 bambini nati dopo il loro arrivo. Adesso Mustafà lavora come muratore. Aveva comprato un bouzouki, ma i bambini l’hanno rotto. E poi le mani non hanno più il tocco di una volta e le dita sono coperte di calli.

Iraqeni protestano sul tetto di un palazzo a Episkopi, in una SBA di CiproNel febbraio 2007, le autorità inglesi volevano espellere i sessanta richiedenti asilo delle SBA e demolire le vecchie case dove sono ospitati da anni. Ma i profughi hanno organizzato una protesta. Per otto mesi, dal mattino alla sera, hanno presidiato la rotonda di fronte all’ingresso della base, sulla Dhekelia road. E alla fine hanno avuto la meglio. Tra loro c’era anche Said. Anche lui è kurdo, ma viene dall'Iraq. Si era imbarcato a Tarabulus l’otto ottobre del 1998 sullo stesso vecchio peschereccio diretto in Italia su cui viaggiava Mustafà. Era partito con la moglie incinta e un bambino di sei mesi. Avevano lasciato Mosul durante la prima guerra del golfo, nel 1990, per ritirarsi in un piccolo paese del Kurdistan iraqeno. Finché non ebbero problemi con gli uomini del Partito democratico kurdo (PDK) di Massoud Barzani, nel 1998. Volevano uccidere lui e il cugino. Se ne fuggì in Libano con la famiglia. E dopo cinque mesi pagò 11.000 dollari in contanti alla “mafia” – così la chiama -, per arrivare in Germania.

Dieci anni dopo, è ancora fermo a Cipro. Nel frattempo gli sono nati altri quattro bambini, la sua richiesta d’asilo è stata rigettata due volte e ad oggi non è autorizzato a lavorare. Gli è stato comunicato di fare una nuova domanda d’asilo presso le autorità cipriote. Ma non ne vuole sapere. Ma come? - dice – dopo dieci anni di limbo, dopo due anni di detenzione con la moglie e due neonati, a Episkopi, adesso dovrebbe ricominciare tutto da capo? Per aspettare quanti altri anni? Probabilmente quello che Said non riesce ad accettare, è l’idea di aver vissuto sotto sequestro per dieci anni. Dieci anni che nessuno gli restituirà mai.

Gabriele Del Grande, le foto in bianco e nero sono gentilmente concesse da Elisabeth Cosimi